Cartolina dal Portogallo
Grand Tour Lisbona
Nuovo percorso letterario nel cuore della capitale portoghese, questa volta inseguendo il mito dolente del poeta ottocentesco João Baptista Almeida Garrett
Lisbona è veramente il cuore del Portogallo, come forse poche città riescono ad essere per la nazione di cui sono emblema (così forse solo Parigi e San Pietroburgo). Come cuore e centro nevralgico, Lisbona è stata quindi sempre oggetto del proiettivo immaginario letterario luso. Mira dei sogni di reconquista, fu la città mora e moçarabe. Poi essa fu per l’immaginario nazionale la Metropoli di rotte di conquista e commercio («nova Roma») ‒ la città dei Camões ‒, la raffinata capitale della Cultura ‒ la città dei caffè e degli intellettuali scapigliati alla Almada Negreiros ‒, ed anche la Grande Meretrice ‒ la città dei conventi-bordello, quella dei torbidi amori (Eça de Queiros), e quella che deludeva a morte i robusti provinciali (Castelo Branco). Molti viaggi immaginari convergono dunque su Lisboa. Pessoa invece vi si muove dentro (Lisbona. Quello che il turista deve vedere). Ed altri ancora se ne dipartono, percorrendo così all’indietro le vie dei sogni. Così Saramago (Viaggio in Portogallo), ma prima ancora il romantico João Baptista Almeida Garrett (Viagens na minha terra). Suo è il nome della strada calante dal Largo do Chiado, davanti alla statua di Camões ed alla Igreja de Loreto (la Chiesa degli Italiani), fino all’Armazem do Chiado. L’itinerario è quello remotissimo da Lisbona alla gotica Santarém ‒ non gotica ma «moçarabe» ‒, da sempre alter ego storico-politico di Lisbona. Qui Dom Fernando, succube dell’ignobile concubina Leonor Teles, vi si asserragliò abbandonando Lisbona ai castelhanos.
Il tempo di questo grand tour non è però allegro. Funestato com’è dagli echi recentissimi della cruenta e devastante guerra civile scatenata dai sostenitori liberali di Dom Pedro II contro Dom Miguel, anima reazionaria, nera ed ultra-cattolica della morente monarchia portoghese. Garrett non ama né gli uni né gli altri. Si dichiara così progressista, ma non senza rendere onore all’Antico. E nello scenario promesso dal Progresso, nel Portogallo quotidiano del post-monarchismo, egli non vede altro che squallore. In un borioso «dubitare» mai disgiunto dall’«arricchire». È l’arte cinica dei «barões». Insomma, la purissima transcendência sagrada, anima del Quinto Imperio (Miguel Real), fortemente agiva, fermentava e spumeggiava anche in lui. Animato da questo inguaribile ed intransigente sognare ‒ serena «immaginazione» (Omero e Goethe) e non divorante «sentimento» (Camões e Tasso) ‒ , egli guarda alle desolata decadenza di Santarém, città che rigurgita di luoghi della memoria mitico-storica di Portogallo. Ed è che proprio nei dintorni rurali di Santarém, in una idillica valle, che sboccia nel racconto del viaggio la delicata quanto appassionata storia di un amore romantico (come sempre in Portogallo, non disgiunto da un’autentica tragedia sofoclea), che vede come protagonista una bellissima giovane donna dagli irresistibili occhi verdi. Joaninha, per i soldati «a menina dos rouxinois». Occhi «verdi come smeraldi orientali, trasparenti, brillanti, senza prezzo». Davanti alla cui spirituale ma sensuale bellezza, Garrett sente vacillare perfino la sua fede tradizionale e cattolica.
Infinite in questo libro le occasioni di meditazione offerte all’autore da luoghi ed eventi. Meditazioni paesaggistiche e filosofiche. In un viaggio per il quale egli elegge ogni cosa ai due poli cosmici hegeliani ‒ quello puro, duro e spiritualista, di un Dom Quijote, e quello torbido, lasso e materialista, di un Sancho Pança (i barões). Il vero Progresso, egli dice, verrà solo quando il secondo svanirà. E questa sembra a lui, così come fu per il Leopardi (Palinodia), la grande contraddizione del Romanticismo ‒ qua retorica letteraria spiritualista e là società materialista.
La partenza descrive nell’anfiteatro della Lisbona orientale la parte «più bella e grandiosa» della città. Qui la «grandiosa maestà” del Tejo («un piccolo mar Mediterraneo») fiancheggiato dalla parte di Chelas da orti, alberi ombrosi, palazzi e conventi. Da qui il viaggio lo porterà in vari luoghi in cui la prosaicità del presente e dell’ordinario sempre dileguerà il delicato oro onirico della memoria mitica ‒ bassezza del presente e grandezza del passato (Leopardi : «All’Italia»).
Miti però per lui in sé alquanto inconsistenti, forse perché fin troppo moderni proprio in quanto decisamente cristiani, rispetto alla vera epica letteraria che è solo pagana greco-romana. È questo il rimprovero che egli muove a Camões, pur cercando di non esagerare.
E proprio a questo si riallaccia poi un tema tipico dei viaggi intellettuali portoghesi, e cioè quello della constatazione della miseria di Lisbona e dintorni a fronte della grandezza splendida di Parigi e Londra. Ma pur nella sua semplicità arcaica, il caffé Cartaxo di Azambuja sembra a Garrett comunque un luogo di bellezze esotiche ‒ e bisogna dire che ancora oggi sono così molti caffè portoghesi. È esattamente qui che inizia l’ultimo e definitivo atto della decadenza ‒ Azambuja, uno dei luoghi della tremenda guerra civile, è stato anche il luogo della «ultima revista do imperador» Dom Pedro II.
Si giunge però al nucleo di tutto questo solo a Santarem, dove nello scenario del romance tra Joaninha e Carlos, emerge la segaligna, austera, e sinistra ma fascinosa figura di Frei Dinis (al secolo Dinis de Ataíde), autentico vestigio dell’arcaico Portogallo nero e cattolico. Ex-soldato e poi inflessibile, rigido ed ascetico frate francescano del convento di São Francisco. Inquieto e mai pago della sua già esigentissima spiritualità. Autentico emblema di una certa austerità spirituale tipicamente lusa. Sarà lui la vittima designata della storia, l’agnello sacrificale del trapasso dall’evo dello spirito a quello della carne. Egli lo è del resto per sua scelta, perché la sua vocazione è motivata proprio dalla precisa volontà di essere disprezzato. E così, nonostante sia un uomo buono e nobile, per tutta la sua vita non raccoglierà appunto altro che odio e disprezzo.
Intanto siamo nel 1833. Lisbona è stata presa dai costituzionali provenienti dall’Algarve e la squadra navale di Dom Miguel è nelle loro mani. A Santarem i frati di São Francisco vengono scacciati a colpi di baionetta. La chiesa di São Domingo, con le spoglie del mitico Frei Gil, diventa caserma. E la chiesa di Alcaçova, con le spoglie di Dom Afonso Henriques, diventa cadente rovina. Il sacerrimo labaro del «Santo Milagre» poi, portato via e nascosto a Lisbona (alla cui avida custodia poté poi essere sottratto solo con l’inganno).
Accade che nell’immaginario romantico-religioso di Garret il destino di bassezza proprio dell’uomo (per natura un «alejado», un deforme) diviene quello della nazione : ‒ «Re nato di tutto il creato, perse la sua maestà reale […] oggi vaga transfuga […] altezzoso ancora e superbo con tutti i suoi ricordi del passato…». Bassezza che fa di ognuno di noi appena una pallida ombra del luminoso Uomo originario della celeste Patria. Così il migliore tra noi non è che «uomo».
La decadenza di Santarém è così l’immagine stessa della decadenza del Portogallo come del mondo stesso. Costretta da allora in poi ad un presente «piccolo, meschino, insignificante» che affatto le appartiene ‒ quale nazione di «poesia» e non di «prosa». Il cordoglio di Garrett giunge fino ad un grido di rabbia e dolore, anch’esso così leopardiano e romantico : ‒ «Maledette siano le mani che ti profanarono, Santarém ; che ti disonorarono, Portogallo ; che ti invecchiarono e degradarono, nazione che tutto perdesti anche i modelli della tua storia».
È polemica tipicamente romantica, ma ci aiuta non poco a comprendere questo favoloso paese. Luogo in qualche modo di una perenne riflessione escatologica.