Ella Baffoni
Il ghetto di Rignano

Etica del pomodoro

Racconti di vita nei campi, oggi: ore e ore di lavoro nel fango, al caldo, senza diritti né speranze. Ecco quello che succede qui da noi in Italia, dove si muore di fatica per pochi euro al giorno

A piedi nudi tra i pomodori. Molti vanno così, scalzi, a raccogliere l’«oro rosso» della Capitanata. I braccianti africani, o est-europei, o magrebini, lasciano le scarpe nei pulmini che li hanno portati nei campi, fossero anche solo ciabatte. È che il fango, i pomodori schiacciati o marci, le piante secche ingrommano con una palta puzzolente gli uomini e i loro vestiti. Fa caldo in Puglia, tanto. Fa scandalo che a morire di caldo e fatica non siano, questa stagione, solo i braccanti stranieri ma anche gli italiani. A Andria è morta Paola Clemente, 49 anni e tre figli, durante l’acinellatura, la pulizia dei grappoli di uva da tavola dai chicchi più piccini, così da far ingrossare gli altri: due euro l’ora la paga. Così è morto Abdullah Mohamed, sudanese, 47 anni e due figli, nei campi di pomodoro di Nardò.

È così: quest’anno tra i braccianti pagati una miseria per un lavoro da bestie ci sono anche italiani. Pure loro soffrono per le condizioni lavorative e per uno sfruttamento bestiale. Ma almeno hanno una casa, una famiglia, degli affetti, amici che li possono piangere; gli stranieri no. Vivono in casolari abbandonati o nei ghetti nascosti nella piana, fanno chilometri per raggiungere il posto di lavoro o un negozio, o una farmacia: segregati. Se muoiono, il loro corpo resta lì, alla morgue. Braccia a perdere.

Uno scandalo, per chi ha cuore. Per chi riesce a vedere in questi giovani uomini i ragazzi che sono, felici di ballare sabato scorso al Ghetto al concerto di Sandro Joyeux, musicista errante che ha inteso così portare il suo contributo alla lotta al razzismo e allo sfruttamento: Fuori dal ghetto tour, musica per la libertà e contro la schiavitù. Ballano e cantano, almeno per una sera, con Sandro Joyeux e ras Bamba, canzoni nuove e canzoni di casa in wolof, bambarà, poular. Non fino a tardi però: l’indomani, anche se è domenica, nei campi ci si deve stare all’alba delle 6, dunque bisogna mettersi in cammino alle 4.30.

pomodori2Ma non è qui, nel gran Ghetto di Rignano, la radice dello sfruttamento. Qui c’è il mercato delle braccia, certo, è l’aspetto più vistoso. Ma la filiera del pomodoro è complessa e lunga. Comincia a gennaio, quando chi possiede la terra e la semina a grano poi l’affitta alle aziende contadine, che pianteranno a giugno, dopo la mietitura: la coltivazione dei pomodori ammenda la terra e ne impedisce l’impoverimento. Ancora prima di piantare i campi, i contadini fanno i contratti con le aziende conserviere: tanti ettari, tante tonnellate di San Marzano tradizionale, tante di bio, tante di lotta integrata. Quest’anno il costo di un chilo di pomodoro tradizionale era stato contrattato a 10 centesimi, ma pochi sono stati pagati così. La sovrapproduzione dovuta al caldo ha consentito alle fabbriche di salsa di abbassarlo fino a 8, a volte fino a 6 centesimi. Con un trucco: quello di far scaricare con lentezza i camion carichi di cassoni. Il pomodoro – soprattutto quello raccolto a macchina, spesso graffiato o ammaccato – va lavorato entro 24 ore, 48 al massimo; se invece resta sui camion incolonnati, sotto il sole, comincia a marcire e lo scarto è maggiore. Per un’azienda come la Princes (dal 2012 acquisita dagli inglesi del gruppo Mitsubishi Corporation) che nello stabilimento di Foggia lavora 300.000 tonnellate di pomodoro fresco all’anno (otto tonnellate al giorno a ciclo continuo), due o tre centesimi al chilo possono fare la differenza. A rimetterci sono gli agricoltori che a volte non riescono a rientrare nei costi e i camionisti costretti a fare la fila, a perdere le corse, a lavorare a volte 24 ore su 24. Tanto che, una settimana fa, sul piazzale di Foggia è scoppiata una rivolta tra i 400 camionisti accampati: alcuni hanno lasciato lì i cassoni appena svuotati. La Princes ha risposto: gli agricoltori vengono da noi perché conviene più che portarli nel casertano. Le aziende campane, probabilmente, pagano ancora meno per un viaggio più lungo.

pelatiTutta colpa delle aziende di trasformazione? È vero che vessano gli agricoltori, come gli agricoltori vessano i braccianti, questione di chi ha la frusta dalla parte del manico. Ma anche le aziende di trasformazione stanno sotto la frusta dei grossisti e della grande distribuzione, che poi fa il prezzo finale, quello sullo scaffale. E che strizzano per quanto possono i costi per aumentare i profitti. Probabile che con la scusa della sovrapproduzione anche le grandi aziende, persino le multinazionali come la Princes, dovranno stare sotto botta.

Sotto botta stanno certamente i consumatori. Non solo per il prezzo che pagano, in continuo aumento, mentre i costi del lavoro diminuiscono. Ma anche per la qualità. Per poter raccogliere i pomodori a macchina, i campi vengono irrorati da un prodotto che li fa maturare tutti insieme, e che resta sulla buccia insieme agli anticrittogamici. La scarsa attenzione per i diritti dei consumatori fa sì che alcune aziende paghino il biologico al costo del tradizionale, anche se la resa sul campo è minore, anche se il costo della coltivazione è maggiore, incentivando gli agricoltori a non impiantarlo più. E dopo le attese nei piazzali, raccontano i camionisti, il prodotto che viene lavorato «è uno schifo». Ma dalle fabbriche di pelati la scatole che escono sono tutte uguali, latte nude (o “vergini”) con la sigla del lotto. La Prince le manda nel suo deposito di Melfi, prima di riportarle qui, pronte per essere fasciate da questa o quell’etichetta, diverse solo per le campagne pubblicitarie che le contraddistinguono. È solo la fascinazione pubblicitaria a far sì che ci si immagini che questa marca sia migliore di quest’altra.

Una differenza invece ci potrebbe essere. Se le aziende avessero colto l’occasione del bollino etico, promossa lo scorso anno dalla Regione Puglia, la differenza ci sarebbe stata. Il bollino prevedeva il rispetto di un protocollo e soprattutto l’assunzione a contratto regolare dei lavoratori, tutti. Dai braccianti nei campi agli stagionali delle aziende. Nessuna delle aziende grandi o piccole del Tavoliere pugliese ha saputo cogliere l’occasione, l’apertura di un mercato che oggi non c’è, se si eccettuano alcune piccole isole di autoproduzione militante, come “Genuino clandestino”.

cassoni pomodoriÈ per questo che una realtà locale e innovativa come VàZapp (Va a zappare, significa, ma l’assonanza con WatsApp è intenzionale) ha lanciato una petizione che ha già raccolto migliaia di firme al ministro dell’agricoltura Martina perché venga a vedere sul campo la filiera del pomodoro, e s’impegni a regolarla: «Salviamo gli agricoltori che coltivano il pomodoro italiano, combattiamo lo sfruttamento della mano d’opera», scrivono quelli di VàZapp (luogo di coworking nell’Azienda Agricola Cascina Savino su agricoltura sostenibile e innovativa).

Il ministro ha ascoltato, assicura che verrà. Intanto, per documentarsi, potrebbe affacciarsi all’incontro organizzato a Foggia su La filiera (non) etica: accanto a due testimoni d’eccezione – il giornalista Matteo Koffi Fraschini che nel Ghetto di Rignano ha vissuto per giorni, e di Arcangelo Maira, sacerdote scalabriniano che organizza da otto anni il campo “Io ci sto”, scuola di italiano e ciclofficina per migranti – discuteranno della filiera e dei suoi ingorghi, ma soprattutto di chi tiene la frusta per il manico, sindacalisti, imprenditori, amministratori, volontari, giornalisti: Guglielmo Minervini, Francesco Miglio, Daniele Calamita, Pierfrancesco Castellano e Madia D’Onghia, Claudio De Martino e Pamela Foti. La discussione sarà costellata da testimonianze video di Antonio Fortarezza. Venerdì 4 settembre alle 20.30 nell’auditorium di santa Chiara a Foggia.

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