Conversazione con Julia Varley
Emozione & Rigore
«Siamo condizionati da quella abitudine di vita per cui si cerca di ottenere il massimo con il minimo. E invece il nostro lavoro punta al massimo dell'emozione con il massimo del rigore». Parla Julia Varley dell'Odin Teatret
Dal 26 al 28 giugno 2015 a Marsciano e San Venanzo, in Umbria, si è svolta la settima edizione del seminario teorico-pratico con Eugenio Barba e Julia Varley “Sensibilità moderna e verità dei classici”, organizzata dal Teatro Laboratorio Isola di Confine. In questo contesto il regista Valerio Apice, direttore del Teatro Laboratorio Isola di Confine e curatore del progetto “Tecniche di comunità e Residenze creative”, ha intervistato il grande maestro e la celebre attrice dell’Odin Teatret. Questa che segue è la conversazione con Julia Varley (reliazzata il 29 giugno scorso); nei prossimi giorni pubblicheremo quella con Eugenio Barba.
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Valerio Apice. Julia, per iniziare questa intervista mi riferisco allo spettacolo che abbiamo visto ieri sera Il Castello di Holstebro, presentato a conclusione del Seminario teorico-pratico che quest’anno aveva come tema «Sensibilità moderna e verità dei classici» e che da sette anni organizziamo a Marsciano e San Venanzo, in Umbria, con te ed Eugenio Barba. Vorrei una riflessione su quello che è il mondo dello spettacolo per te. Cioè, le persone, dai commenti fatti ieri, notano che dietro i vostri spettacoli (alcuni partecipanti avevano visto anche Ave Maria presentato nel Teatro più piccolo del mondo a Monte Castello di Vibio nel 2013), dicevo, che dietro ogni vostro spettacolo c’è proprio un mondo, che ogni dettaglio è una costruzione che abbraccia la vita ma anche la tecnica. Come lavori tu su uno spettacolo?
Julia Varley. Come lavoro su uno spettacolo? Credo che ogni spettacolo abbia un modo di essere costruito diverso, per cui non è che ci sia una regola: facciamo così, partiamo dal testo, da un’improvvisazione, da un tema… Ogni volta è diverso. Quello che credo che le persone percepiscono è quello che tu hai chiamato la cura dei dettagli. È come se ci fosse un lavoro che sentono profondo. E questo viene da un’”abitudine” che abbiamo all’Odin, da un training, di dare il massimo. Cioè non entri in sala per arrivare a un risultato più o meno, ma tutto quello che fai lo fai dando il massimo. Per cui, anche se cominci a lavorare su uno spettacolo, se fai un’improvvisazione, sì, tu sai che poi dopo deve essere elaborato, cambiato, sviluppato, pero è come se la tua presenza, il tuo essere lì è al cento per cento. Non risparmi, non ti tieni da parte qualcosa. E questo, penso, è quello che sentono gli spettatori ma anche i partecipanti ai seminari. Spesso mi chiedo perché i partecipanti sono commossi alla fine e dicono che ricorderanno questi tre giorni per tutta la vita. Poi penso che non sarà così, dopodomani avranno dimenticato. Ma l’esperienza, per loro, è stata profonda, perché sono abituati al modo di vivere che abbiamo tutti i giorni nella nostra società, dove si cerca di ottenere il massimo risultato dando il minimo. Mentre il nostro modo di lavorare è il contrario: dai il massimo per un’ora o la mezz’ora di risultato che è lo spettacolo. Quando mi chiedi come costruisco uno spettacolo, “Il castello di Holstebro” per esempio è nato per un festival del Magdalena Project, una rete di donne di teatro contemporaneo, in Norvegia, dove dovevo fare una dimostrazione. Avevo già lavorato all’Odin dieci anni, però sentivo che ancora non sapevo niente. Era molto difficile fare una dimostrazione, cioè fare come se già sapessi. Scelsi Mr. Peanut, il personaggio con la testa a teschio, per parlare per me. Mr. Peanut cominciava dicendo: “Ah, ma io sono troppo giovane, non so niente ancora…”. È chiaro che queste parole, che erano le mie, dette dalla Morte hanno tutto un altro significato. Poi ho messo insieme alcune improvvisazioni, montaggi, personaggi, che avevo fatto prima, sempre in dialogo con Mr. Peanut. Mi ricordo che la prima volta che ho fatto tutto il materiale di seguito, io stessa mi sono commossa. E’ come se c’era qualcosa nel lavoro che non dipendeva da me, era come se lo spettacolo ha cominciato a parlare da solo. Ed è lì che si è trasformato da dimostrazione a spettacolo. Poi l’ho fatto vedere a Eugenio Barba, ci abbiamo lavorato, è cambiato, ed è diventato lo spettacolo. Era la prima volta che ero in scena da sola e, come tu ben sai, questa è una responsabilità grande, perché gli spettatori ti guardano tutto il tempo. Mentre con gli spettacoli di gruppo, ogni tanto, puoi avere più controllo perché ci sono altri che sono nel punto focale. Fare un solo è stato un’esperienza importante nel mio lavoro di attrice nonostante preferisco sempre fare lavori di gruppo. Per me, il gruppo è essenziale anche per la costruzione di uno spettacolo.
V. A. Una cosa soltanto: ci conosciamo da quasi vent’anni e quello che mi continua veramente a sorprendere, a commuovere, a emozionare, è proprio questo. Cioè, quando tu parli di commozione, tu stessa, come attrice che ha un’esperienza di trent’anni all’Odin Teatret, continui a commuoverti ma, nello stesso tempo, riesci a creare una disciplina e una voglia di dare il massimo che io credo che oggi manchi nel teatro. È stato detto anche nel seminario in questi giorni. Questa voglia, questa capacità di dare il massimo, di chi inizia a fare teatro ma anche di una generazione di mezzo nel teatro contemporaneo. Dire “io dò il massimo e sono capace però di ricevere”. Tu lo dici nel tuo libro Pietre d’acqua. Cioè ci spieghi come utilizzi i materiali che il regista esclude per uno spettacolo di gruppo e come quegli stessi materiali diventano però il tuo bagaglio che trasformi in spettacoli singoli, in dimostrazioni di lavoro. Quindi, sempre dai il massimo e questo “spreco”, si trasforma supportato da una disciplina. Questa la considero una tua grande capacità di sorprenderti ancora. E io credo che è proprio questo che manchi a noi teatranti. In questi direzione, vorrei da te un consiglio.
J. V. Ieri, dopo che la banda di Spina ha suonato, c’erano due dei genitori dei ragazzi che sono venuti a Holstebro per la Festuge e sono stati a Idom con voi (durante i festeggiamenti per i 50 anni dell’Odin Teatret, ndr). Dicevano “salutate Kai (Bredholt). È stata un’esperienza fondamentale partire dall’Umbria e venire in Danimarca…”. Questa sensazione di riuscire ad avere rapporti con persone vere, persone che ancora sentono questo bisogno di condividere, di fare, penso faccia molto parte della nostra vita. Sì, siamo un gruppo conosciuto, abbiamo anche fatto i festival internazionali, ma questo non cambia il nostro bisogno di un rapporto quasi personale con lo spettatore. Infatti, non parliamo di pubblico, parliamo di spettatori. Allora quando hai un rapporto, una relazione tra persone, qui sta tutto il valore del teatro, no? Che ancora è il posto dove due persone, almeno, devono incontrarsi. Chi sta in scena e chi è lo spettatore. E questa è come una verità di base. Questo, è talmente concreto, vero, e non ha niente di intellettuale, di importante, di fama, di successo. Sono altri valori. I valori dell’incontro. E lì, è chiaro, se tu incontri una persona ti commuovi non per quello che tu fai ma ti commuovi per quello che tu provochi nell’altro, per questa esperienza che riesci a condividere nello stare in scena con chi poi viene a vederti. Questo avviene anche nei seminari. Quando l’altro giorno facevo l’esempio di come puoi passare da un cantato al parlato e vedevo la faccia di uno dei partecipanti che era a bocca aperta, è chiaro che ti colpisce. Non è che ti colpisce perché io faccio questo… Colpisce come, tutto d’un tratto, tu riesci ad aprire una finestra, ad aprire uno sguardo, a dare una possibilità di futuro, di sviluppo, di cambio a qualcun altro. E questo è quello che ci nutre. Per questo è essenziale dare il massimo!
V. A. Quelli che noi facciamo a Marsciano e San Venanzo con il festival e il seminario da sette anni ha avuto un’origine. Io mi ricordo nel ’98, a Bologna, quando vi ho incontrato la prima volta, ho visto tutto il lavoro dell’Odin Teatret, ed eravamo all’Arena del Sole e tu avevi fatto “Il tappeto volante” e, a un certo punto, io ero seduto nei palchetti al centro e ho avuto per la prima volta nella mia vita teatrale l’esperienza che la tua voce era arrivata a me che ero al terzo ordine ed era diventato il corpo del teatro. Mi piacerebbe sentirla…
Julia Varley canta…