Ella Baffoni
La storia del film «Io sto con la sposa»

Confine aperto

Khaled Saliman Al Nassiry, Gabriele Del Grande e Antonio Augugliaro hanno raccontato una storia di migranti con la cinepresa. Ne è nato un documento duro contro l'esclusione

L’impresa è irripetibile: far arrivare in Svezia cinque siriani, in fuga dalla guerra, sbarcati a Lampedusa dopo aver attraversato il deserto e il Mediterraneo. Per caso, ma non proprio, si ritrovano tre persone di diversa provenienza con una missione improbabile: è Io sto con la sposa, visto all’Est Film Festival di Montefiascone, sezione documentari. La sposa è un’attrice vera ma empatica: di origine siriana, lei nella sua terra non può tornare perché ha il passaporto tedesco ma è palestinese, alla frontiera la respingerebbero.

Ecco, i confini. I confini con Africa e Medio Oriente, chiusi per chi vuole andare in Europa. E quelli nostri che non dovrebbero esistere, non siamo una sola cosa, ormai? Per gli europei i confini non ci sono, per gli altri sì. Invece che alla frontiera i confini sono nei passaporti, negli aeroporti, nelle stazioni, nelle piazze e nelle strade. I maledetti confini che discriminano, validi solo per chi ha la pelle di un altro colore, per chi ha una fisionomia o una lingua non europea. Caduti i confini, l’idea di confine non tramonta.

È qui il nemico, il confine. Nemico della civiltà e delle culture, nemico dei diritti umani. Avviene così l’incontro fra tre persone diversissime, racconta Khaled Saliman Al Nassiry, stesso cognome di Gesù, il Nazareno. Poeta, critico, redattore editoriale e palestinese, vive a Milano e lavora per una casa editrice araba. Insieme a Gabriele Del Grande, giornalista e animatore di Forteress Europe. Si è ritrovato con lui alla Stazione centrale durante le prime ondate di arrivi dalla Siria, per dare orientamento e informazioni a chi arrivava, spaesato e senza nulla, dall’Italia del sud. Oltre all’Italia dell’indifferenza e del leghismo che alza muri e barriere ce n’è un’altra, empatica e solidale, che le rompe.

Qui, in una stazione di Milano, l’incontro con il “marito della sposa”, che era nel barcone il cui naufragio, nel 2013, commosse l’Italia che ora non si commuove più, 200 morti. Poi quello con Manar, il ragazzino rapper e suo padre, e via via con gli altri. Insieme al regista Antonio Augugliaro cominciano a pensare di registrare le loro testimonianze, ma prima bisognava fare qualche cosa di concreto, subito. Affittiamo un pulmino e travestiamo tutti da turisti giapponesi, con scarpe da ginnastica, pantaloncini e macchinoni fotografici, propone uno. Meglio vestiti da suore, obietta un altro. Poi l’idea, il viaggio della sposa accompagnata dalla famiglia allargata. E allora facciamo un film, propone il regista.

Come si fa un film in tre? Litigando, sorride Khaled. Mica poi tanto, se bastano quindici giorni per scrivere una sceneggiatura di massima, organizzarsi, trovare cameramen e attrezzature, e partire. Il film è il viaggio, la battaglia contro i confini, disobbedienza a leggi cattive, luogo di relazioni e comprensione; e ha il sapore dell’utopia.

Non per caso, il primo confine che si scavalca è al Frejus, la via usata dagli antifascisti italiani per riparare in Francia o dai nostri emigranti, chiamato il “passaggio del morti”. E la visita alla casa sempre aperta per chi espatriava, la “casa di Gina”. Via via, poi, gli altri. «Una sola volta siamo stati fermati dalla polizia – racconta Khaled, e il sorriso un po’ gli trema – a Copenhagen. Ma quando la pattuglia ci fu davanti e noi già ci sentivamo perduti, uno dei poliziotti, forse di origine italiana, ha gridato: viva la sposa, e in un tripudio di viva siamo passati indenni. Nel film l’episodio, ovviamente, non c’è e non ci poteva essere».

Tornati in Italia, che fare del girato? Grazie al crowfounding ecco 100.000 euro per il montaggio e la distribuzione. Poi l’arrivo nelle sale, i festival, il David di Donatello, Venezia. E qui il piccolo miracolo: applausi al film che autodenuncia un atto di disobbedienza e un reato, l’attrice sposa e i comprimari profughi invitati a sfilare sul red carpet, e dunque a varcare legittimamente i confini passati da clandestini. In nome di chi è rimasto indietro.

Un successo che nelle sale ha raccolto almeno 600.000 euro. Eppure i tre registi, alla fine dei conti, si sono trovati a dividersi 40.000 euro per due anni di lavoro, questa è la situazione di chi fa buoni documentari in Italia.

Singolare l’accoglienza al Festival di Montefiascone. Durante il dibattito tante le domande sul film, molte mostrano stupore per la durezza delle regole sull’immigrazione, da Schengen a Dublino. Molte la necessità di capire il conflitti nel mondo arabo e nel vicino sud del mondo: quelle frontiere inventate dai grandi della terra, l’incancellabile vicenda Palestinese, il terrorismo islamico foraggiato e finanziato dall’occidente, da al Qaeda all’Isis. E i destini delle persone, segnati da decisioni lontane, che il film mostra come sono, carne e sangue, sogni e desideri, musica e poesia.

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