Canto (secolare) all'estate
Beatrice al sole (mio)
Nelle pieghe della nostra canzone più famosa nel mondo, «'O sole mio», c'è l'essenza delle contraddizioni della nostra identità: luce e buio, aria fresca e tempesta, creatività e arte di arrangiarsi. Perché l'Italia è una canzone
Forse la canzone italiana più conosciuta all’estero è O sole mio, e forse proprio per questo la storia della sua nascita e del suo successo è tipica del nostro paese. Nacque nel 1898 a Napoli, nello stesso anno in cui vide la luce l’attore comico Antonio De Curtis, detto Totò ed ambedue, la canzone e la maschera, sono uno straordinario contributo della cultura popolare italiana. Come i film di Totò, essa ha avuto fortuna sia presso un pubblico colto che popolare. Infatti fu cantata da Claudio Villa ed Enrico Caruso, ha subìto vari arrangiamenti nella musica jazz, nel rock e nel pop, è stata tradotta in molte lingue e spesso, per ragioni pratiche, sono state anche cambiate le parole, come è successo con It’s now or never di Elvis Presley.
L’autore dei versi fu il poeta Giovanni Capurro, commesso di tessuti, giornalista, diplomato in flauto. Poverissimo, padre di sei figli, di cui tre morti in giovane età, componeva canzoni per arrotondare lo stipendio che gli dava il giornale Roma. Fu autore di un’altra celebre canzone, Lily Kangy che ironizzava sulla figura della chanteuse: «Chi me piglia pe’ francesa/ Chi me piglia pe’ spagnola/ Ma so’ nata o Conte ‘e Mola/ Metto ‘a coppa a chi vogl’i!» ecc.
Nei primi mesi del 1898 Giovanni Capurro scrisse i versi di O sole mio e per la musica li affidò al posteggiatore, suonatore ambulante, Eduardo Di Capua, giovane autodidatta (già autore di Maria Marì, I’ te vurria vasa’, Torna Maggio)il quale era in partenza per Odessa, Ucraina, insieme al padre, per un giro di lavoro alla corte dello zar Nicola II. Non era infrequente che i posteggiatori napoletani fossero invitati ad allietare le mense della regalità d’Europa, perciò per la prima volta la canzone più tipica dell’azzurro mare mediterraneo fu ascoltata sul Mar Nero. Ritornato a Napoli, Di Capua rivide la musica con Alfredo Mazzucchi: insieme, cedettero i diritti (in cambio di pochi soldi) ad un ex garibaldino, l’editore Bideri – vero promotore della canzone napoletana – il quale la presentò al concorso per la Piedigrotta di quell’anno. Capurro volle dedicare la canzone alla moglie di un deputato napoletano Giorgio Arcoleo che aveva vinto il concorso di donna più bella della città partenopea Anna Maria Vignati-Mazza detta Nina sperando in una raccomandazione. Questo non arrivò e O sole mio vinse il secondo posto, anche se sugli spartiti che si vendevano veniva scritto che avesse vinto il I° premio del concorso “la Tavola Rotonda”. Comunque senza citare l’apporto di Alfredo Mazzucchi che solo dal 2002 risulta coautore della canzone. Infatti, in quella data un tribunale di Torino ha riconosciuto Alfredo Mazzucchi, deceduto nel 1972, come coautore della melodia, di conseguenza il brano rimarrà sotto copyright fino al 2042 e Bideri continuerà a guadagnare ogni qual volta viene eseguito il brano. La somma si aggira intorno ai 152 mila euro l’anno.
I due autori ebbero un premio in danaro per il secondo posto e quello fu l’unico compenso che i due ricevettero per la canzone. In seguito, giocando al lotto, Di Capua conobbe un altro grande poeta sfortunato Vincenzino Russo con il quale scrisse varie canzoni, fra cui I’ te vurria vasà. Questi versi straordinari, dedicati alla figlia di un gioielliere – Enrichetta Marchese – sono capaci di trasformare una robusta sensualità maschile in immagini impalpabili e la gelosia in un cane ringhioso tenuto alla catena.
O sole mio nel giro di pochi decenni divenne famosissima tanto che nel 1920 alle Olimpiadi di Anversa fu suonata come inno nazionale, onore toccato solo a Volare di Domenico Modugno quando arrivò a New York nel 1959. Come succede spesso in Italia dove il talento viene punito, i due autori originali morirono poveri. Di Capua suonerà il piano nelle sale cinematografiche per accompagnare la proiezione dei film muti e morirà nel 1917 mentre Capurro lo seguirà qualche anno dopo, senza godere minimamente del successo della sua canzone. La SIAE era nata a Milano nel 1882, ma evidentemente i due autori non vi erano iscritti.
Perchè O sole mio è diventata così famosa all’estero?
Essa rappresenta, più di quanto crediamo, l’immagine della civiltà mediterranea. Una civiltà che ha come simboli il sole fecondo, la donna, l’acqua. La preghiera al sole affonda le radici nell’antichissimo culto egizio del dio Mitra, assorbita dalla figura di Gesù, come dimostra il mitreo della Chiesa di San Clemente a Roma, dove sotto terra vi è il tempio dedicato al dio Mitra e sopra la Chiesa cristiana.
Non a caso, la prima testimonianza di canzone napoletana, datata al 1200, è un inno al sole fecondatore: «Jesce sole/ Nun te fa’ cchiù suspirà/. Siente maie che le figliole/ hanno tanto da prià?». Insomma il sole è un personaggio abituale di quel mare secolare dove storia e mito si confondono. Dove, in tempi più recenti, venivano gli artisti, i pittori, i poeti del nord dell’Europa a trovare la luce, la trasparenza, i colori con cui dipingere i quadri della scuola di Posillipo o mettere radici come fece il danese Axel Munthe a Capri o gli inglesi di Villa Cimbrone a Ravello.
L’anima poetica della canzone è un vero e proprio elogio alla trasparenza dell’acqua. Nelle tre strofe vi è un accenno a tre tipi di acque, la pioggia, l’acqua della fonte, il mare, inframezzate dal ritornello che il vero sole sta sulla fronte della propria donna, essa è sole e depositaria del sole. Conchiglia e perla allo stesso tempo. Ed a rafforzare questa luminosità si parla di occhi, vetri, finestre, mentre il sole affonda nel mare. Ogni strofa inoltre suggerisce purificazione: la pioggia purifica l’aria, la lavandaia lava i panni, il sole, affondando nel mare, si purifica dalle scorie del giorno. Se volessimo leggere ancora più in profondità, vi si può scorgere addirittura un ciclo vitale, la nascita, «n’aria serena doppo na tempesta la vita ‘na lavannara… torce, spanne e canta» infine la morte «Quanno e fa notte e ‘o sole se ne scenne».
Tanta trasparenza, come spesso accade, nasce da profonde ambiguità. Infatti fu pubblicata con l’immagine di una lavandaia in copertina. Che il lavatoio pubblico sia una specie di gineceo della miseria ha sempre fatto parte dell’immaginario maschile. E che la lavandaia svolga allo stesso tempo il ruolo di madre e di amante è fuor di dubbio. Infatti la lavandaia torce, spanna e canta, contenta di strizzare ed esibire il cuore del suo amante. E che, insomma, tutta la canzone si regga sull’equilibrio fra giorno/notte, sole/luna, pulito/sporco, madre/amante, aria serena/tempesta, ecc. ribadisce il concetto che spesso le cose bianche hanno una segreta oscurità, che il sole ricorda la luna e che ogni acqua trasparente ha sempre un cuore melmoso.
La bellezza delle canzoni napoletane antiche, soprattutto se cantate a bassa voce da Murolo, somiglia – come direbbe Totò – alla bellezza umile di un bicchiere di acqua fresca davanti al viso di un assetato. Esse sono degne di essere inseriti in una antologia poetica tutta da scrivere che potrebbe avere come titolo «Dolce stil novo napoletano». E Beatrice sarebbe allo stesso tempo angelo e sciantosa, lavandaia e figlia di un gioielliere.