Fa male lo sport
Sua sardità (sportiva)
Dopo lo scudetto di Sassari nel basket, tutti a parlare di Gigi Riva e soci. Ma la tradizione sportiva sarda è fatta di molti miti. Da Marisa Sannia al giovanissimo velocista Filippo Tortu
Dice un proverbio sardo che Dio dà all’uomo il dolore ma anche il rimedio. Un blogger isolano lo ha utilizzato per sintetizzare la stagione sportiva dell’isola: il Cagliari calcio scende in serie B, la Sassari del basket vince lo scudetto. Dalla serata di festa a Reggio Emilia, dove la squadra di Meo Sacchetti si è laureata la migliore d’Italia sotto canestro, fatto inedito per l’isola, i paragoni con l’impresa di Riva & Co. nel ’70 si sono sprecati. Viene naturale.
In realtà, si poteva restare anche sul parquet per ricordare tante cose. Per cominciare: fino all’irruzione di Sassari, c’era una leggenda del basket sardo, la Brill Cagliari. Non ha mai vinto scudetti, al contrario della Dinamo, ma per circa dieci anni – più o meno dal ’69 al ’78 – il quintetto del capoluogo rappresentò la bella novità dei canestri. Come Il Chievo di Delneri o l’Empoli di Sarri nel calcio. Per poi conoscere una decadenza che non ha ancora avuto fine.
E se oggi a Sassari e altrove si celebrano le gesta di Lowan e Laval, c’era una volta uno yankee dalla mano calda che scaldava il palazzetto di via Rockfeller. Si chiamava John Sutter: quando i tre punti erano al di là da venire, lui ne mise a segno 52 in una sola partita, anche se preferiva sempre citare i 32 contro la Reyer Venezia, che in quegli anni veniva sponsorizzata dalla Canon. C’è una partita che i cagliaritani ancora ricordano (un ospite fisso del palazzetto era proprio Gigi Riva): quella in cui Sutter e i suoi compagni batterono la grande Ignis Varese di Meneghin e Morse. Ignis, Brill, Saclà Torino, Jollycolombani Forlì, Snaidero Udine, Forst Cantù, All’Onestà Milano; con l’altra Milano, quella del grande blasone, l’Olimpia, la Juve dei canestri, che portava stampato sulle maglie il marchio Innocenti, poi Cinzano, poi Billy. Ma non più Simmenthal. Questa era la geografia e l’archeologia industriale della palla a spicchi, anni Settanta. Giocava ancora nell’anno dello scudetto dei rossoblù del calcio, una donna e una sarda, che già nel ’65 sembrava avviata ad una brillante carriera baskettara. Tanto da essere convocata nella nazionale juniores femminile per i campionati europei di Sofia. Si chiamava Marisa Sannia (nella foto sotto), poi nota non certo per i suoi tiri in sospensione. La ragazza con i capelli a caschetto e le minigonne più caste che si ricordino, quella che imparammo a conoscere a Sanremo con Casa bianca di Don Backy, spinta a cantare da Sergio Endrigo, giocava a basket prima nella Karalis e poi nel Cus Cagliari. Ed era molto considerata e legatissima alla sua terra. Tra un palleggio e un disco riuscì anche ad accontentare Dino Risi e, soprattutto Armando Trovajoli, interpretando la colonna sonora di Straziami ma di baci saziami (1968, lo stesso del debutto al Festival), il film scritto da Age e Scarpelli come fosse un fotoromanzo: il titolo di quel brano era Io ti sento, un tormentone dall’inizio alla fine della pellicola con Tognazzi, Manfredi e Pamela Tiffin («…e un giorno droverò un bo’ d’amore anghe per me…per me che sono nullidà…nell’immenzidà…»)
Questi i ricordi. L’attualità tra basket e Sardegna ha un nome prestigioso, la maglia verde dei Boston Celtics, il numero 70, come l’anno in cui fu fondata la Santa Croce d’Olbia, società in cui mosse i sui primi passi. Gigi Datome è stato per il basket isolano quello che Gianfranco Zola è stato per il calcio, per stare ai tempi più recenti.
Un mese prima del successo della Dinamo Sassari, la Sardegna aveva fatto vibrare il suo cuore sportivo per il campione sui pedali: Fabio Aru, secondo al Giro d’Italia dietro Alberto Contador, e protagonista di un gran finale di corsa con le due vittorie consecutive sulle montagne, a Cervinia e al Sestriere. E pure a maggio c’era stato un altro piccolo episodio di un vento favorevole. Lontano dall’isola, un ragazzo di diciassette anni ha corso i 100 metri in 10”33 che è un signor tempo per gli under 18, il record allievi; erano 39 anni che non si riusciva a buttare giù il crono (10”49) fatto registrare da Giovanni Grazioli nel ’76, all’epoca del Brill Cagliari quindi. Solo Pierfrancesco Pavoni aveva fatto meglio nell’82 come under 20 (10”25). Il giovane velocista si chiama Filippo Tortu (nella foto sotto), vive in Brianza, corre per la Ricciardi Milano ma suo padre viene dalla Gallura. Record anche sui 200 con 20”92, sette centesimi in meno della prestazione del 2001 di Andrew Howe, e primato nazionale under 18.
In effetti, se dovessimo contare le vittorie sarde negli sport di squadra, la leadership spetterebbe all’Amsicora Cagliari, che di scudetti ne ha vinti 22 nella sua storia. Parliamo però di hockey prato, sport nobilissimo e il più presente ai Giochi olimpici dopo il calcio. Progenie british, successivamente praticato – come da noi il pallone – da pakistani e indiani. Ora diffuso anche in Europa. Ma, in Italia, è una disciplina rimasta circoscritta agli addetti ai lavori e a pochi appassionati. Sta di fatto che l’Amsicora, questa stagione, ha vinto due scudetti: quello maschile e quello femminile (da notare: 3 delle 4 squadre arrivate ai play off per il titolo erano sarde, di Cagliari e della provincia; alle Olimpiadi di Roma del ’60 su 14 atleti sardi che vi parteciparono, 9 erano dell’hockey). Il bello è che ad allenare maschi e femmine è sempre la stessa persona: Roberto Carta. Un dato curioso.
C’è della sardità nello sport sardo? Difficile parlare di localismi in squadre che hanno dentro di loro gente che arriva da tutto il mondo. Certo la caparbietà, ad esempio, o per meglio dire la determinatezza, un segno distintivo del carattere isolano, la si ritrova qua e là. Sacchetti, il coach vincente dei bianco blu sassaresi, ha parlato di un tratto fondamentale della sua squadra e cioè di una «durezza mentale incredibile». E forse intendeva dire che anche l’ambiente, non tanto il calore dei tifosi, ma una certa mentalità, può portare a certi traguardi.
Si può parlare piuttosto di folate storiche. Negli anni Novanta, in pista la staffetta veloce era composta da quattro sardi: Floris, Puggioni, Marras, Asuni. Per dire. Negli anni Sessanta, i campioni che emergevano dall’isola erano soprattutto pugili, piccoli e forti, combattenti duri a cedere. Certo erano determinati. Il migliore fu Salvatore Burruni (nella foto), mondiale dei pesi mosca, talento e generosità messi insieme, 109 match, 99 vittorie, 9 sconfitte, 1 pari. Fu il quinto pugile italiano a mettersi in testa una corona del pugilato, dopo Carnera, D’Agata, Loi e Mazzinghi . E in quei tempi il pugilato era una cosa seria, le categorie erano appena 11. Ma ci furono anche Fortunato Manca che sfidò Mazzinghi nei medi, Piero Rollo, campione d’Europa dei gallo. Fernando Atzori, considerato l’erede di Burruni, di Ales, il paese di Gramsci, oro alle Olimpiadi di Tokyo ’64, campione europeo dei mosca. In realtà Atzori visse quasi tutta la sua vita a Firenze. Una decina di anni dopo toccò a Franco Udella, il piccolo pasticciere, che riuscì a diventare il primo campione del mondo dei minimosca. Sport di fatica, poveri e poco redditizi. Sebastiano Mannironi, morto qualche settimana fa a Bracciano, fu il sollevatore di pesi nuorese che vinse il bronzo ai Giochi di Roma nel ’60. Di Olimpiadi ne fece tre. Franco Sar, che nacque ad Arborea, ma veniva da lombi veneto-friulani, è stato un ottimo decatleta di quegli anni. Come Antonio Ambu, mezzofondista e maratoneta, Giochi di Tokyo e di Città del Messico, poi allenatore e dirigente di quella grande società di atletica che fu la Snia di Milano (Pigni, Preatoni, Simeon, Azzaro, Urlando). Per lui venne usato subito il termine “il tamburino sardo”, poi inflazionato (Aru è l’ultimo). Pochi mezzi e grandi sacrifici. Come la vita degli altri, quelli che non correvano e sbuffavano. O tiravano pugni.