Ritorno nei luoghi del lavoro nero
Sfruttamento City
Un anno fa vi raccontammo il Ghetto di Rignano, vicino a Foggia, terra senza diritti dove vivono i braccianti che cercano lavoro stagionale. Doveva essere chiuso, e invece...
Picchia il sole fin dalla mattina, s’infuocano le baracche del Ghetto. A metà strada tra Rignano e San Severo, 17 chilometri da Foggia, c’è la vergogna di Puglia, il Gran Ghetto. Così lo chiama chi ci vive, così lo chiama chi ci viene, così lo chiama chi non ci ha mai messo piede. Simbolo dello sfruttamento dei braccianti stranieri, nasconde dietro i teloni delle serre che impacchettano le pareti di cartone delle baracche le centinaia di altri ghetti, incistati con meno scandalo negli ombelichi della Capitanata. Lì però non vivono i caporali e i capineri, al Ghetto sì, qui è il mercato delle braccia.
“Capo off, Ghetto out” è il progetto della Regione Puglia, partito l’anno scorso, per smantellare questo e gli altri ghetti del Tavoliere. Un progetto molto articolato, che avrebbe dovuto coinvolgere i braccianti, i datori di lavoro, le imprese agricole, le aziende di trasformazione, la grande distribuzione. Perché la produzione del pomodoro da sugo, anche se non l’unica, è la più importante della Puglia: qui vengono ad approvvigionarsi i grandi marchi italiani e europei. Anche per questo il pomodoro italiano è oggetto di campagne di boicottaggio etico in Europa, che gli imprenditori dovrebbero pure vedere con qualche preoccupazione…
Non ha funzionato. Presentato come lo smantellamento del Ghetto, il 1 luglio dell’anno scorso sembrava dovessero cominciare i traslochi il giorno dopo: lo raccontammo anche noi, qui su Succedeoggi (clicca qui per leggere il reportage di un anno fa). Invece nemmeno un imprenditore, nemmeno un’impresa agricola ha attinto alle liste di prenotazione. A crederci, invece, sono stati i braccianti, che in ottocento le hanno riempite, quelle liste, vincendo la diffidenza e il timore che si trattasse di una autodenuncia, di una trappola per espellerli. Dimostrando che la legalità, l’emersione, sono un vantaggio per chi non ha che da perdere che le proprie catene. Un grande risultato, una lezione per chi pensa che i migranti vogliano rubarci il benessere. Quel benessere che poggia su pilastri marci, il super sfruttamento che agricoltori e imprenditori non intendono scalfire.
Eppure, nel progetto regionale i vantaggi non sarebbero stati pochi, dice amaramente Guglielmo Minervini, ex assessore regionale e motore di Capo off Ghetto out: «Abbiamo a un certo punto capito che la risposta delle imprese era indispensabile. Abbiamo messo sul terreno la minaccia di attività ispettive, gli incentivi all’emersione del lavoro (300 euro ogni 20 giornate lavorative), il bollino etico, i protocolli firmati solennemente da categorie e imprese… tutto faceva pensare che il progetto di poteva avviare. A luglio non avrei scommesso che non ci sarebbe stato nemmeno un contratto di lavoro. Poi le chiamate sono slittate di settimana in settimana, fino alla fine della stagione». Vuota è rimasta anche la tendopoli allestita come alternativa al Ghetto: isolata nelle campagne di San Severo, sarebbe stata utile a chi aveva già il contratto, chi ha bisogno dei caporali per lavorare dunque è rimasto al Ghetto. Ovvio che oggi i ragazzi africani dicano: promesse, promesse, e qui non cambia niente. Niente è cambiato, infatti.
Prima il grano, poi i carciofi e gli ortaggi, ora il pomodoro, poi i meloni, l’uva e le olive: la stagione agricola ha bisogno di tante braccia, e tutte insieme: quando i prodotti maturano e bisogna buttarli nel mercato finché è possibile. Così il Ghetto, anche quest’anno, sta crescendo. Più di ottocento ci vivono già, alla vigilia della raccolta dell’«oro rosso». Altri stanno arrivando. Nel corso, il lungo viale che delimita il campo, già sono aperti bar e ristoranti, aumentano i “negozi” che si riforniscono nei discount di Foggia e propongono merci (a prezzi più alti) a chi non si può permettersi di andarli a prendere. Cibo, ma anche abiti di seconda mano, ferramenta, materiale elettrico, anche pannelli solari. La Regione fornisce acqua potabile e bagni chimici, tra poco arriveranno anche i volontari per l’assistenza sanitaria, la scuola, la ciclofficina, Radio Ghetto.
Apparentemente non è cambiato niente, anzi. Il Ghetto, la città dell’esclusione e dello sfruttamento, sembra più prospera che mai. Invece, dice Minervini, che pure non si nasconde la sconfitta, la strada è tracciata: «Il vero ostacolo è il sistema delle imprese agricole: nonostante la condivisione degli obiettivi da parte delle associazioni datoriale nessuna delle imprese, alla fine, ha attinto dalle liste di prenotazione. Quel patrimonio di fiducia è stato frustrato dai risultati scadenti del processo. Ci siano interrogati su questo blocco: la crisi del pomodoro lo scorso anno (il prezzo era bassissimo, lo stesso prezzo del 1987), la bassa produzione per gli eventi meteo, e le croniche fragilità della filiera. Nonostante la Capitanata sia il primo produttore di pomodoro in scatola in Italia, la filiera è estremamente frammentata: su 16.000 ettari lavorano 24.000 aziende, di cui 16.000 non dichiarano nemmeno una giornata di lavoro; è un settore i cui imprenditori ancora non investono sulla qualità del prodotto, convinti che si stia sul mercato comprimendo il costo del lavoro. E dunque sono succubi di chi fa il prezzo, imprese di trasformazione e grande distribuzione».
Eppure nel progetto c’era il bollino etico “Equapulia”, che avrebbe dovuto premiare le aziende che si fossero servite di lavoro legale, con i contratti. Nel sito (www.equapulia.it) c’è ancora l’enfasi sulla firma degli accordi con le organizzazioni datoriali, i vantaggi per le aziende, quel bollino che avrebbe potuto aprire un mercato oggi inesistente, quello del pomodoro etico, indebolendo le ragioni del boicottaggio europeo. Tutto inutile, ammette Minervini: “Il bollino è un’architrave del nostro progetto, ma ha ottenuto un’attenzione solo formale dagli imprenditori che non hanno a cuore la qualità del prodotto. Auchan ad esempio non ha mai sottoscritto il protocollo d’intesa, Coop sì, e le sue aziende hanno tenuto fede all’accordo, i loro rapporti di lavoro erano in larga misura regolari. Lo stesso con l’industria di trasformazione: da un lato la Princes, pur preoccupata davanti alla caduta di immagine del prodotto in realtà non ha controllato il rispetto del protocollo da parte delle aziende agricole, e i piccoli operatori locali (Futuragri, Granoro) che erano più avanti ma i cui lavoratori, pur vivendo in Capitanata, non stavano al Ghetto. Sul Ghetto non c’è stato nessun riflesso. Del resto, se c’è forte riprovazione del consumatore l’imprenditore si mette in movimento, se no spietatamente comprime il costo del lavoro. Il nostro pomodoro non è come la mela Melinda del Trentino: se pure ha alle spalle una rete di produttori molto piccola, un ettaro o mezzo ettaro, nel mercato parla con un’unica voce e fa il prezzo. Qui invece si scatena la competizione al ribasso, e la compressione del prezzo si scarica sull’ultimo anello della catena, il bracciante”. Di qualità del prodotto, di qualità del lavoro si sarebbe dovuto parlare all’Expo di Milano: vista da qui, è un’occasione perduta.
Occasione perduta anche il bollino etico, occasione perduta il salto di qualità dell’agricoltura foggiana. E i controlli nei campi, secondo braccio dell’operazione, non sono stati davvero efficienti. Pochi, se non collusi, gli ispettori del lavoro, la task force organizzata dalla prefettura ha portato a casa pochi risultati. Un’altra arma ci sarebbe, dice l’ex assessore: «Le politiche di incentivazione agricola, che l’anno scorso abbiamo appena abbozzato. Vorrei suggerire alla nuova giunta Emiliano: usate gli incentivi agricoli per quelle aziende che percorrono la strada della legalità, chi non la percorre è fuori (ed è una valanga di soldi: tra il 2014 e il 2020 22,2 miliardi di euro per Campania, Puglia, Basilicata, Calabria e Sicilia, regioni più svantaggiate, ndr). Se un’impresa chiede sostegno ma alle spalle ha zero giornate di lavoro, o controlli istituzionali negativi, resti fuori dagli incentivi. Abbiamo il dovere di dire che l’agricoltura deve essere legale, lo devono capire anche le associazioni datoriali. È questione di cultura. È un meccanismo di convenienza: chi compie questo percorso è più solido, conviene anche alle imprese uscire dal meccanismo di sfruttamento. In terra di Capitanata legalità non è una delle parole retoriche della politica. Qui l’illegalità ha una grande forza, non sono poche le aziende agricole che insieme alle braccia comprano dal caporale colluso anche la protezione da “incidenti” nei campi, a cominciare dagli incedi dolosi. Se gli imprenditori continueranno a subire le intimidazioni, se resteranno soli l’economia resterà precaria, nera e anche criminale. Le sconfitte si pagano salate. I braccianti, che avevano sperato in un lavoro legale, sono stati ributtati nelle braccia dei caporali e dei caponeri (i sottocaporali africani), nello sfruttamento bestiale. Le aziende hanno capito che il sistema dei controlli non è stato rafforzato, e si rilassano. I caporali hanno ripreso forza e arroganza, non avranno concorrenza nel mercato delle braccia; qualcuno di loro, al Ghetto, ha minacciato i volontari che raccolsero le adesioni alle liste di prenotazione. Vedremo se sarà la regione a battere un colpo, la nuova giunta del governatore Emiliano. La incalzerò, assicura Minervini, “sarò in prima linea a sostenere che non si abbandoni questo percorso. Dobbiamo superare la frustrazione e andare avanti. Di qui si riparte, non butto la spugna. Ma ricordiamoci che qui si convive con il caporalato e lo sfruttamento da decenni, da secoli. E la nostra frustrazione è che la nostra sconfitta ha legittimato il caporale, il sistema ha retto, lo stato no. Falliti noi, hanno vinto gli altri. È anche per questo che dobbiamo immaginare come il cambiamento possa accadere. È anche per questo che non ci si può arrendere».
Al Ghetto, intanto, le baracche si allineano sempre più fitte, una dopo l’altra. E i pulmini dei caporali fanno la spola sui campi, sempre più pieni. A restare uguale è la paga oraria, che anzi si abbassa fino, alle volte, a 2,50 euro l’ora, 25 euro per 10 ore senza pause sotto un sole ruggente.