Cartolina dall'America
Obama International
L'accordo sul nucleare iraniano segna un altro successo del presidente Barack Obama: il primo democratico a segnare la politica estera degli Usa. Malgrado l'opposizione durissima dei repubblicani
L’accordo è stato finalmente raggiunto dopo trattative lunghe e incerte fin all’ultimo momento tra Iran e i sei ( 5+1) paesi più importanti del mondo (Cina, Francia, Inghilterra, Russia, Stati Uniti a cui si è aggiunta la Germania) che si sono incontrati a Vienna. Teheran non potrà produrre armi nucleari per almeno 10 anni. E il paese sarà sottoposto a regolari ispezioni per verificare il rispetto dell’accordo, permettendo gli ispettori Onu di visitare anche i siti militari. In cambio ci sarà la revoca delle sanzioni che hanno strangolato il paese fino a ora.
Per il presidente Obama un altro successo, costruito passo dopo passo a seguire quello della riapertura delle relazioni con Cuba, dopo 22 mesi dalla sua prima telefonata al presidente iraniano Rouhani. Questo nuovo traguardo, condotto in porto dal segretario di Stato Kerry, va a consolidare la legacy di Obama e contraddice un principio di politica estera che ha caratterizzato gli Stati Uniti per decenni: quello della forza al posto della diplomazia. Un elemento che Obama ha compreso fin dall’inizio eliminando quella vocazione da “falco” che ha invece contraddistinto tutti i successi della politica estera dei presidenti repubblicani. Quelli che, più dei democratici, sono riusciti a portare a casa nl settore internazionale traguardi di notevole portata. Basta pensare a Nixon e Reagan. «La storia dimostra che l’America – ha detto Obama in un breve discorso di 15 minuti dopo la sigla dell’accordo – è in grado di essere un paese leader senza obnubilare attraverso la sua potenza, ma semplicemente con i suoi principi. L’annuncio di oggi marca un passo in avanti verso un mondo più sicuro, più solidale, più pieno di speranza… Questo accordo offre un’opportunità di andare in una direzione diversa. Dovremmo approfittarne».
Adesso lo scoglio è rappresentato dal Congresso che a maggioranza repubblicana in ambedue le Camere, rischia, come d’altronde già annunciato, di boicottare l’accordo anche se il presidente ha già affermato che opporrà il suo veto. Basterà a quel punto solo una maggioranza di due terzi del Congresso per approvare la misura diplomatica.
Resta il fatto che questo accordo rappresenta un grande traguardo per la filosofia che ha animato la politica estera di Obama il quale ha sempre creduto che dialogare con i propri nemici, di cui l’Iran ha costituito fino a questo momento quello più pericoloso, fosse la strategia vincente. «Dopo due anni di negoziati gli Stati Uniti, insieme con i loro partner internazionali, hanno raggiunto qualcosa che decenni di animosità non sono riusciti a ottenere: un accordo comprensivo a lungo termine con l’Iran che non permetterà loro di ottenere le armi nucleari. Questo accordo dimostra che la diplomazia americana può produrre cambiamenti significativi e reali, cambiamenti che rendono il nostro paese e il mondo più sicuri», ha affermato Obama. Non senza problemi tuttavia. Infatti adesso ambedue i leader di Stati Uniti e Iran devono affrontare lo scetticismo interno ai loro paesi, quello stesso che a volta ha visto definire rispettivamente «il grande satana» gli Stati Uniti e «l’asse del male» l’Iran. Senza contare quello di due alleati degli Stati Uniti tra i più fedeli: Israele (il quale attraverso il suo primo ministro Netanyahu ha definito questo accordo «un errore storico») e l’Arabia Saudita vedono infatti di mal’occhio questo avvicinamento tra Stati Uniti e Iran e la possibilità di un Iran più forte.
In particolare il primo ministro israeliano che si è battuto ferocemente fin dall’inizio contro questo accordo è preoccupato per la situazione di incertezza che si può venire a creare in tutto il Medio oriente. A partire dal fatto che, secondo Netanyahu, l’Iran sostiene il governo siriano di Assad e che continuerà a sostenere i nemici di Israele nella regione. Cosa che invece gli Stati Uniti per bocca di Obama contestano in quanto ritengono che quella zona sarà resa più sicura proprio dalle regole imposte nei confronti del divieto della proliferazione nucleare dell’Iran, invitando Israele e i paesi limitrofi a vigilare su come l’accordo viene implementato. Ma è proprio la sospensione delle sanzioni a preoccuparli in quanto si ritiene che l’Iran, che si troverà a potere usufruire di nuove risorse economiche, tenda a sviluppare conflitti locali.
Ma ci sono anche preoccupazioni di critici interni all’amministrazione, i quali non condividono pienamente la speranza della Casa Bianca che la leadership iraniana si ammorbidisca durante lo sviluppo dell’accordo. Dopo tre decenni di ostilità e di mosse false tra Stati Uniti e Iran infatti gli esperti americani sono incerti su come Teheran risponderà alla nuova sfida e se manterrà le promesse fatte. Il che getta un’ombra di dubbio sulla strategia del dialogo intrapresa da Obama. Un’opinione che alti funzionari dell’amministrazione avevano fino a ora espresso solo privatamente ma che ora diviene sempre più pubblica. Anche se, come riporta The Wall Street Journal, si affrettano a dire che soprattutto per il fatto che la popolazione iraniana vuole drastici cambiamenti sociali ci sono molte possibilità che l’Iran imbocchi una diversa direzione in cui è più coinvolto con la comunità internazionale e meno dipendente dalle attività in cui finora è stato impegnato.
I punti fondamentali e le conseguenze di questo accordo saranno tuttavia pienamente dispiegate solo durante la presidenza del successore di Obama il quale dovrà affrontare i problemi che ne deriveranno. Anche se le condizioni da qui a dieci anni saranno differenti e differenti gli equilibri. Per ora non c’è un’alternativa diversa da quella dell’accordo e quello che conta sembra essere la possibilità, seppure ancora tenue, che l’Iran imbocchi una strada diversa da quella perseguita fino a ora.
Nel suo discorso, Obama ha riaffermato i principi umanitari che hanno sempre guidato in questi anni la sua politica estera: la non violenza e il sostegno ai più deboli. «Credo che dobbiamo continuare a provare per vedere se questa regione che ha conosciuto tanta sofferenza e tanto spargimento di angue possa imboccare una direzione diversa». Quando in un dibattito del 2007, prima del suo primo mandato, gli fu chiesto se avrebbe incontrato i leader delle nazioni ostili agli Stati Uniti, come Iran e Siria, cosa che l’amministrazione di George W. Bush si era rifiutata di fare, Obama rispose: «Certo che lo farei. La nozione che in qualche modo non parlare con quei paesi sia una punizione per loro – principio che ha guidato la diplomazia d’amministrazione Bush – è ridicolo». Hillary che allora era la sua sfidante democratica definì questa posizione «ingenua». Ma la storia almeno in questi ultimi tempi ha dato ragione a Obama. Basta vedere cosa sta succedendo con Cuba. La real politik da sola non rappresenta necessariamente un motore al cambiamento, perché a volte confina con il cinismo. Speriamo solo che Hillary nella sua prossima campagna elettorale lo tenga ben presente. Obama invece è e sarà ricordato in politica interna come estera come il presidente del dialogo, della non violenza, della giustizia sociale, malgrado le brutali opposizioni e le gravissime sfide globali che ha dovuto e deve affrontare. E quest’ultimo traguardo ne è un’ulteriore dimostrazione.