Danilo Maestosi
Una bella mostra a Roma

La tavola imperiale

All'Ara Pacis non perdetevi un lungo percorso nei rapporti tra l'Impero Romano e il cibo. Dalle peripezie globali del grano al prezzo del pesce da scoglio. Duemila anni fa.

Roma verso Expo. Il logo inserito in sopratestata fa prevedere il peggio: una delle tante inflazionate manifestazioni d’occasione sul tema del cibo realizzate per sfruttare anche in periferia i richiami della fiera milanese, e figurare in qualche modo nel cast. Invece, la mostra Nutrire l’impero, confezionata dalle soprintendenze archeologiche di Roma e di Pompei e in cartellone fino a dicembre nelle sale del museo romano dell’Ara Pacis, è appuntamento da consigliare. Non è una passerella di capolavori che punta tutte le sue carte sull’aura dell’arte classica, come lascia temere il busto di Livia, prima first lady dell’Impero Romano, che apre il percorso: occhio alla corona di papaveri e di spighe che sovrasta la chioma, un omaggio a Cerere, che ci spiega come attributo primo della classe regnante era presentarsi con i segni di una divinità che governa l’agricoltura e ne dispensa i frutti. Un prologo attorno a cui si sviluppa l’intero racconto di questa mostra.

Perché nutrire il popolo di Roma è, da subito, il primo perno politico della strategia alla quale tutti i discendenti di Cesare si attengono per ottenere consenso, giustificare e far accettare l’immensa fetta di potere che hanno espropriato, i loro abusi e i loro capricci e garantire la pace sociale nel cuore del regno. Il primo passo, già in età repubblicana, è la distribuzione gratuita del grano ai cittadini: in età traianea quando Roma è una megalopoli di un milione di abitanti i romani che beneficiano di questa concessione sono circa 200 mila. Ad ognuno una quantità di cereali sufficiente ad avere pane in casa per tutto l’anno. Più tardi la distribuzione gratuita includerà anche l’olio. Più tardi ancora, quando la decadenza è ormai arrivata al punto di caduta, toccherà al vino. Un vinaccio scrauso certamente, tutt’altra qualità da quello della Sabina, della Campania e delle Puglie che circola a caro prezzo nelle case dei ricchi….

Il consumo di grano si conta in milioni di tonnellate, quello prodotto in Italia non basta più. Produrlo è compito assegnato alle nuove provincie. Egitto, Tunisia, Libia diventano i granai di Roma. I campi africani assoggettati a questa monocultura, con una logica di sfruttamento non molto diversa da quella che ai giorni nostri sta imponendo la Cina, acquistando per i suoi fabbisogni alimentari immensi appezzamenti dell’Africa centrale.

cibo impero romano3Il trasporto avveniva via mare. Il ricamo delle rotte copre con una fitta trama tutto il Mediterraneo. Il grano viaggia dentro speciali anfore di terracotta che ne garantiscono la conservazione e un’unità di misura. In altre anfore viaggiano olio, vino. E il garum, quella salsa di residui di pesce fermentato che diventa uno dei condimenti e degli ingredienti da mensa più in voga in tutto l’ Impero Romano. Su ogni anfora viene stampigliato il prodotto, il luogo di provenienza, a volte il nome dell’importatore e del capitano della nave usata per il trasporto. Un registro di cocci che ha permesso agli esperti di ricostruire al dettaglio la storia di questo formicolante via vai di uomini e merci. E su cui la mostra si sofferma in una serie di spettacolari siparietti.

La campionatura dei recipienti. Le mappe dei porti della capitale. Da quello a esagono di Traiano, alle banchine di Testaccio dove avviene l’ultimo trasbordo. I modellini delle navi che lasciano vedere da un squarcio sulle fiancate come le anfore fossero impilate e poi assicurate al fondo della stiva. Altri modellini di mercati di due colonie africane. E ancora mosaici, dipinti, lastre di sarcofagi , affreschi di tombe e case patrizie che classificano mestieri, raccontano fatiche , oneri e ed onori di chi ha lavorato per secoli in questa filiera di commerci.

Più sfilacciata la narrazione del secondo capitolo affidata in massima parte ai reperti provenienti da Pompei. Tante le chicche e i tesori sgranati lungo il percorso. Come lo sfolgorante affresco che decorava il triclinio di una ricca domus vesuviana, evocando sulle pareti la vegetazione rigogliosa di un giardino popolato di piante esotiche ed enigmatiche figure numinose. Come lo splendido corredo di coppe e vassoi d’argento che proviene dalla villa di Boscoreale. O altri due stupefacenti campionari di analoghi materiali provenienti da due colonie danubiane. Come i resti di cibi fossilizzati riemersi sotto la coltre di cenere e lapilli: piselli, fave, datteri, fichi, forme di pane. Uno sfoggio di materiali che però, piegato ad illustrare troppi temi, perde un po’ il suo impatto. Dal cibo come fonte primaria di sopravvivenza al cibo come rituale nelle mense più ricche dove domina l’ostentazione dell’abbondanza e la sperimentazione del sapore come valore in sé. Una cerimonia che tocca la sua apoteosi nel festino di Trimalcione descritto da Petronio. Un tripudio di prelibatezze e di sciali consumato all’insegna filosofica del Carpe Diem, che questo anfitrione scettico e gourmand celebrava lasciando cadere sui letti o nelle mani dei suoi ospiti delle statuette di scheletri. Un cocktail di memento mori e sberleffo introdotto più per esaltare che per rovinare il piacere della festa.

Non è pura invenzione letteraria. Quelle figurette a teschio giravano davvero sulle mense della classe colta e benestante. Come ci dimostrano due statuine in bronzo esposte in vetrina. Grande lezione di civiltà, questo evocare il senso della fine, come un sapore in più, un retrogusto che sigilla il tragitto sfrenato del gusto. Non ci sembra che all’Expò di Milano ne abbiano tenuto gran conto. Guai a turbare con un pizzico di riflessione una grande abbuffata. Ma forse è proprio questo che ci fa apprezzare, aldilà dei suoi evidenti limiti di semplificazione didattica la mostra dell’Ara Pacis.

Mostra che ci riserva proprio alla fine il suo capitolo più intrigante. È il testo di un editto con cui all’inizio del Trecento d.C. l’imperatore Diocleziano cercò invano di arrestare la crisi economica che dilaniava il suo regno: le casse pubbliche prosciugate dall’inflazione, il potere della moneta ufficiale indebolito dall’anarchia di molte colonie che battevano altre valute, il costo della vita alle stelle. Come calmiere, Diocleziano varò una specie di prontuario che fissava i prezzi dei prodotti sul mercato e regolava stipendi e salari. Una copia dell’originale è appesa alla parete destra. Di fronte una traduzione che si concentra su alcuni esempi calcolati in dinari. Scopriamo così che una libbra di pesce di scoglio costava 24 dinari contro i 6 dinari del baccalà, i 12 della carne di maiale, gli 800 di una quantità di pepe di peso equivalente. E siamo in grado di capire su quale entrate la gente poteva contare. Un bracciante agricolo su 25 dinari al giorno, un muratore su 50, un garzone di fornaio su 60, un pittore d’affreschi specializzato in figure, tra gli artigiani meglio pagati, su 150. Lo stipendio di un maestro di greco arrivava a 200 dinari al mese, quello di un pedagogo privato a 50 dinari ad alunno. La professione più pagata? Quella forense. Un avvocato percepiva 1000 dinari per ogni causa, più 250 per ogni istanza presentata durante il processo.

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