La nuova raccolta di Milo De Angelis
La morte in versi
“Incontri e agguati” è uno dei lavori più compiuti del poeta milanese che porta a compimento, in modo più limpido ed essenziale, il processo di rastremazione della parola già precedentemente iniziato. Con montaliano “male di vivere”…
«Questa morte è un’officina/ ci lavoro da anni e anni/ conosco i pezzi buoni e quelli deboli,/ i giorni propizi, la virtù/ di applicarsi minuto per minuto e quella/ di sostare, sostare e attendere/ una soluzione nuova per il guasto./ Vieni, amico mio, ti faccio vedere,/ ti racconto». Con questo significativo preambolo, Milo De Angelis fa iniziare la sua nuova raccolta di poesie, Incontri e agguati (Mondadori, pagine 72, 18 euro) che esce a distanza di un lustro dalla precedente, intitolata Quell’andarsene nel buio dei cortili. Ci troviamo di fronte a uno dei lavori più compiuti del poeta milanese, in cui il processo di rastremazione della parola iniziato con Biografia sommaria (Mondadori, 1999) – anche se in quel libro era presente in nuce la tendenza a recuperare una dimensione “narrativa”, poi disattesa – viene portato definitivamente a compimento.
Nonostante permanga una serie di caratteristiche tipiche della poetica di De Angelis – una certa oscurità, un certo procedere analogico che si impone a strappi, in virtù della forza centrifuga del frammento – il dettato con il passare del tempo si è fatto meno ostico, più limpido ed essenziale rispetto al percorso iniziato con Somiglianze (Guanda, 1976), pur non rinnegando quella complessità, quella tensione verticale e quell’onirismo presenti sin dagli esordi che fecero coniare ad alcuni critici il termine “neo-orfismo” a proposito della sua lirica. Si pensi, al riguardo, all’esperienza della rivista “Niebo” e, per quanto approssimativamente, ai titoli immediatamente successivi.
La nuova raccolta è suddivisa in tre lunghe sezioni in cui è presente una differente tematica che le contrassegna, anche se, come accade spesso nella poesia di De Angelis, si tratta di temi che sono, in qualche modo, intercambiabili, in virtù di situazioni o immagini che si ripercuotono da una sezione all’altra. Ma il motivo onnipresente è quello del dolore, di un montaliano «male di vivere» che diventa sordo, cupo, lacerante, formando «a poco a poco la parola niente».
Nella prima sezione, Guerra di trincea, il tema è quello della morte che si configura come una sorta di leitmotiv nella poetica stessa di De Angelis – si pensi alla silloge Tema dell’addio (Mondadori, 2005) dedicata alla figura di Giovanna Sicari, poetessa e moglie dell’autore prematuramente scomparsa – arrivando a scrivere: «Nessuno, morte, ti conosce meglio di me/ nessuno ti ha frugata in tutto il corpo/ nessuno ha cominciato così presto a fronteggiarti…». Si dipana così questo «canto di puro gelo», questa «farsa/ delle preghiere», che si incide nella carne come un «pungiglione delle ore perdute». Si costeggia il precipizio – «ora sono il precipizio di me stesso» – con la consapevolezza che solo il logos può costituire l’unica possibile ancora di salvezza, come «un povero fiore di fiume/ che si è aggrappato alla poesia».
La seconda parte è quella che dà il titolo al libro e si apre con una lirica che, per la sua indiscutibile bellezza, riproponiamo integralmente:
Questa sera ruota la vena
dell’universo e io esco, come vedi,
dalla mia pietra per parlarti ancora
della vita, di me e di te, della tua vita
che osservo dai grandi notturni e ti scruto e sento
un vuoto mai estinto nella fronte, un vuoto
torrenziale, che ti agitava nel rosso dei giochi
e adesso ritorna e ancora ritorna
e arresta la danza delle sillabe
dove accadevi ritmicamente e tu
sei offeso da una voce monocorde e tu
perdi il gomitolo dei giorni e spezzi
la tua sola clessidra e ristagni e vorrei
aiutarti come sempre ma non posso
fare altro che una fuga partigiana da questo cerchio
e guardare il buio che ti oscilla tra le tempie e ti castiga,
figlio mio.
La tematica è quella degli “incontri”, degli “agguati” che cadenzano le nostre giornate, con una spiccata predisposizione a registrare, a inventariare le diverse espressioni di un’umanità abbruttita, degradata, emarginata, un’umanità i cui contorni si delineano appena nelle brume dell’hinterland milanese o sotto i neon di una stazione ferroviaria: «Ti ritrovo alla stazione di Greco/ magro come un rasoio e ulcerato da un chiodo/ che tu chiamavi poesia poesia poesia […] e io adesso ti rifiuto/ e ti amo, come si ama un seme fecondo e disperato». Alcolizzati e tossicodipendenti, depressi e reclusi diventano i protagonisti di queste pagine che, d’altronde, non cedono mai il fianco alla tentazione della retorica, della demagogia, ma si permeano indissolubilmente, come un referto clinico, di esperienze dolorose e radicali: «ti aprivi le vene/ tra un grammo e un altro grammo». Da rimarcare il fatto che De Angelis indugia spesso intorno al gioco del calcio, anche se si tratta di momenti distanti mille miglia da quelli ufficiali, in cui un’azione decisiva in un campetto di periferia può costituire l’occasione «per tendere le braccia vittoriose/ a tutti noi che restiamo».
La terza e conclusiva sezione, Alta sorveglianza, accoglie un poemetto suddiviso in ventiquattro parti ed è ispirata a un efferato fatto di cronaca e al tema complesso della reclusione (De Angelis insegna da molti anni in un carcere di massima sicurezza). Quest’ultima sezione rappresenta l’ideale corollario agli argomenti trattati nelle due parti precedenti, incidendosi nella memoria con versi di icastica potenza descrittiva, in cui nondimeno la tipica enigmaticità deangelisiana conosce esiti quanto mai felici. Eppure, in questa raccolta sembra che quella febbrile inquietudine che designava gli oggetti come una sorta di arbitrario inventario del mondo si sia diradata, per lasciar posto a una più distaccata compromissione con le vicissitudini del reale, nonostante i «saliscendi/ della mente», nonostante «il pietrame triturato/ che diventa la tua vita».