Every beat of my heart, la poesia
Il chiaretto di Beppo
George Gordon Byron nella sua versione “leggera”, quando a Venezia, in un perenne dolce carnevale, inventa l’ottava nel verso inglese e scrive capolavori assoluti. Sulle orme di Ariosto e di Pulci…
George Gordon Byron lascia l’Inghilterra, troppo puritana per i suoi gusti, dove la vita per lui diviene fastidiosa. La relazione con la cugina è l’ennesimo motivo di critica della società nei suoi confronti e di irritazione del giovane e fascinoso lord verso la cultura inglese e protestante. Se ne viene in Italia, in viaggio, sul lago di Ginevra, incontra Percy Bysshe Shelley, subito i due grandi poeti diventano amici. Shelley cerca il mare Mediterraneo, la Liguria, andrà a vivere nei pressi di Lerici, dove morirà in un naufragio con la sua barca Ariel, fatta costruire in un cantiere di Genova. Un naufragio che presenta modalità incontestabili, se il poeta parte con tempesta incombente e infrangendo il divieto della Capitaneria che cerca di impedirgli di salpare. Ho tradotto loro poesie e quelle del più sfortunato amico John Keats in un libro invece piuttosto fortunato, I ragazzi che amavano il vento, edito da Feltrinelli.
Byron sapeva che l’amico Shelley era attratto dal fondo, dal mistero dell’abisso, quando lui e quanto lui era incantato dalla superficie. Sceglie infatti Venezia, città sull’acqua, vetri di Murano, cristalli, specchi, danze, donne ridenti, mariti accondiscendenti, un lieve carnevale perenne, ma dolce, non pagano. È uno dei più grandi nuotatori del tempo: lo sport è da poco di moda tra aristocratici, alcuni lo sfidano, nessuno lo batte. Tra feste, bicchieri di champagne e chiaretto (sì, il grande Byron, come prima di lui Marlowe nel Dottor Faustus, conoscono il magico vino rosato di Bardolino, grazie alla potenza della Repubblica Veneziana, che diffonde i suoi pregi in tutti i mari), scrive capolavori assoluti, superiori anche alle poesie ufficialmente romantiche scritte in Inghilterra, che lo hanno reso celebre per la loro sofferta e tormentata inquietudine. Qui, a Venezia, impara l’italiano, si innamora di Ariosto e Pulci, inventa l’ottava nel verso inglese, crea poemi inarrivabili come il Don Juan e il suo preludio, persino superiore, Beppo. Sottotitolo, Una storia veneziana. Travolgente, il poema eroicomico di Pulci rinasce in versi inglesi di bellezza e ilarità irraggiungibili. Scrive meraviglie, è uno dei massimi veneziani di ogni tempo, con Vivaldi e Canaletto e Goldoni.
Qui poche ottave da Beppo, che ho tradotto e raccontato e pubblicato per Feltrinelli, e che va letto come si legge l’Orlando furioso o il Morgante. Una delle tante donne innamorate di lui, incantate dalla sua fama di poeta notturno, tragico (quello inglese), al risveglio veneziano, al mattino, gli comunicò, emozionata, il piacere della serata e della nottata… aggiungendo però che se lo immaginava meno «champagnoso e chiarettoso», meno ridanciano e più cupo, insomma tormentato e febbrile. «Non posso tremare sempre – le rispose. A volte devo anche radermi».
Con tutti i suoi peccati, devo dire
che l’Italia mi piace, che mi piace
vedere il sole splendere ogni giorno,
e le viti non piantate su un muro,
ma tutte abbarbicate ai tralicci,
fondali d’opera dove la gente accorre
quando una danza chiude il primo atto,
tra vigne rosseggianti come in Francia,
galoppare nelle sere d’autunno,
senza che il mio lacché si leghi ai fianchi
il mio mantello solo perché il cielo
promette pioggia, e so che se sbatto
nei carri traballanti e rossi d’uva
nei viali verdi, mossi e seducenti,
da noi sarebbe polvere o concime.
Mi piace poi mangiare beccafichi,
guardare il sole che tramonta, certo
che domani risorge e non opaco
come un occhio ubriaco tra le nubi,
ma in pieno cielo rinascerà un giorno,
lucente e senza nuvole, e non gonfio
di quel torvo lucore di candela
del fetido bollore londinese.
La lingua poi, quel latino bastardo
morbido come il bacio di una donna,
che vibra come se scritto sul raso,
sillabe respiranti il mezzogiorno,
le liquide che scorrono gentili,
dove nessun accento suona rozzo
come le gutturali nordiche, grugniti
o fischi che sputiamo, scoppiettanti.
Infine (perdonate) amo le donne,
le ricche guance contadine bronzee,
e gli occhi neri e irradianti, e grandi,
che ti dicono tutto in un istante,
le dame, la fronte malinconica,
ma chiara e dallo sguardo selvatico,
cuore su labbra, sugli occhi l’anima,
solare e dolce come il cielo e il clima.
George Gordon Byron
(Da Beppo. Una storia veneziana, Feltrinelli, traduzione di Roberto Mussapi)