Cinema (problematico) per famiglie
Horror per madri
Babadook di Jennifer Kent è un film che spiega la fatica di diventare genitore raccontando il rapporto difficile tra una madre depressa e suo figlio
Tra diventare genitori e essere genitori c’è di mezzo il mare, dirò parafrasando un celebre proverbio. Non so perché, ma per anni e anni, infanzia e adolescenza compresa, ho creduto che non sarei mai né diventata né stata una madre. Poi la vita mi ha contraddetto e sorpreso alla grande. Diventare e essere madre non è di certo un gioco da ragazzi. Tutto cambia sotto i nostri occhi senza che si possa controllare appieno il cambiamento in atto. Corpo, mente, visioni, piani futuri, spazi. Cambia tutto. Per me la gravidanza è stata un momento di comunione profonda non solo con la piccola vita che cresceva dentro di me ma anche con l’universo. Mi sentivo un albero millenario e giorno dopo giorno sentivo le radici di quell’albero crescere fino a raggiungere i quattro angoli del globo. Sono stata fortunata. Oggi guardo mia figlia e mi sento la donna più fortunata del mondo anche se la strada non è sempre stata in discesa.
Ma è giusto chiarire una verità molto importante e anche piuttosto velocemente. Questa, anche se certi dettami culturali vecchi di millenni vorrebbero farcelo credere, non è la norma. Una donna può anche non desiderare la maternità. E l’amore per la vita che stiamo per mettere o abbiamo già messo al mondo non è un processo automatico, bensì qualcosa che richiede una costruzione graduale che si basa sulla scoperta reciproca (madre-bambino) e personale (madre-madre). Alle volte questo processo avviene con una certa fluidità, in altri casi si rivela un’esperienza difficile che non risparmia nessuna sfera della nostra vita.
E già che ci sono, vorrei chiarire un’altra cosa: una donna non deve essere messa nella condizione di sentirsi un’anomalia, un mostro, un’eccezione se nella vita nutre altri obbiettivi che non siano il diventare madre. È triste doverlo ammettere ma, nonostante la nostra società si stia liberando progressivamente da determinati perbenismi culturali, morali, borghesi, il concetto della donna che rifiuta la procreazione non è stato ancora del tutto metabolizzato a dovere. Come del resto non è stata ancora metabolizzata l’idea che una donna possa avere la facoltà di scegliere.
È uscito nella sale italiane un piccolo film horror, Babadook, diretto e scritto dalla poliedrica Jennifer Kent (Two Twisted, Monster, Dook Stole Christmas). Che Babadook sia a labour of love si capisce sin dalle prime sequenze con una chiarezza disarmante. Altrettanto disarmante è il punto di vista che la regista sceglie per affrontare il tema della maternità e del rapporto difficile tra una madre depressa e suo figlio. Personalmente non posso che ammirare anche il coraggio che la Kent dimostra nel raccontare questo aspetto dell’umana esistenza scegliendo la strada dell’horror. Penso di averlo già dichiarato in qualche recensione passata, ma ho sempre pensato che a questo genere non siano mai stati del tutto attribuiti i giusti meriti. In alcuni casi ho pensato al prodotto che stavo guardando come al risultato di un’evoluzione iniziata con la letteratura gotica e conclusasi con un mezzo narrativo tipico dei nostri tempi, l’immagine. Come la sua illustre antenata, anch’essa spesso sottovalutata per un’incapacità di andare oltre alla superficie sensazionalistica delle sue storie, il genere horror grazie alla sua ricchezza immaginativa e allegorica riesce ad affrontare con grande consapevolezza e profondità temi difficili e sensibili.
E la Kent fa proprio questo.
Si avvicina il compleanno del figlio di Amelia. Peccato che questa data coincida con il capitolo più doloroso della sua vita, la perdita del marito a causa di un incidente stradale proprio mentre si stavano recando in ospedale per partorire Samuel. Da allora la vita di Amelia è cambiata per sempre. Un pesante velo nero l’avvolge, rendendo ogni azione quotidiana una fatica incommensurabile. E il dover essere presente per Samuel non fa eccezione. All’improvviso nella vita dei due fa la sua comparsa un inquietante libro per bambini il cui protagonista è una creatura mostruosa, il Babadook per l’appunto. Non passa molto, a lettura avvenuta, perché il protagonista del libro, questa creatura che pare cibarsi del buio interiore di Amelia, diventi un’effettiva presenza nella vita di questa famiglia menomata da un destino crudele e avverso.
Babadook per molti versi è un film coraggioso e anche un film terrificante. È terrificante perché, come nella migliore e più antica tradizione dello storytelling riesce nell’intento di smuovere le sensibilità più sacre dello spettatore facendo uso della metafora e di personaggi mostruosi che tanto hanno il sapore del folklore più antico e spaventoso. È coraggioso perché indirizza l’attenzione verso verità che spesso non vogliamo né affrontare né accettare che esistano.
La Kent nel mettere in scena il rapporto tra Amelia e Samuel ci ricorda che una madre ancora prima di essere tale è un essere umano a sé e che essendo tale non può semplicemente, come se nulla fosse, prendere ciò che della vita fa male e spezza il cuore e rinchiuderlo in una scatola facendo finta che non esista. Non vi è nulla di più deleterio della seguente affermazione: sei una madre, il tuo dovere è quello di mettere da parte tutto quello che ti riguarda come donna e pensare ai tuoi figli. Purtroppo questo tipo di richiesta viene fatta con allarmante frequenza a tutte le donne del mondo, ogni giorno, ogni secondo. E si ha l’impressione che negando il disagio della donna si autorizzi tutte quelle figure familiari e non che le ruotano attorno a fare lo stesso. I risultati di questa malsana richiesta di rimozione sono spaventosi come ci dimostrano spesso le notizie riportate dall’informazione.
Un genitore perché sia un genitore felice, sano nel corpo e nella mente, perché abbia davvero un’eredità positiva da trasmettere al proprio figlio deve essere innanzitutto un individuo, un essere umano felice e non un’entità che vive di riflesso, nell’isolamento e nella negazione delle proprie peculiarità.
La Kent quindi non racconta solo le difficoltà della maternità. Va ben oltre. La sua è anche la storia di un’ingiustizia, vale a dire l’imposizione culturale della quale Amelia è vittima e che richiede di mettere da parte l’elaborazione del lutto. Sfortunatamente certi moti dell’animo si possono solo nascondere temporaneamente. Della lenta erosione che operano durante il loro esilio si può fare ben poco e ancora meno a frana avvenuta.
Del finale di Babadook dirò solo che sorprende perché non solo è un finale positivo ma anche perché chiude il cerchio con lucidità, intelligenza e grande consapevolezza.