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Frontiere americane
Alex Shoumatoff racconto l'America dei deserti, Chris Adrian quella delle metropoli. Mentre Adelardo Castillo spiega l'Argentina delle origini (e dei latinos)
La frontiera. Fateci caso. Più o meno tutti conosciamo, più indirettamente che non, la costa orientale degli Stati Uniti, la California e più recentemente Seattle. Questo per i telefilm, i film, le immagini, i romanzi. Ma la zona cosiddetta “profonda” degli Usa, quella che si chiamava “la nuova frontiera”, ci è sostanzialmente ignota. Una ragione in più per segnalare Leggende del deserto americano, edito da Einaudi (584 pagine, 26 euro). L’ha scritto Alex Shoumatoff, gran viaggiatore e giornalista. Leggendo il suo libro, con narrazione in prima persona, ci imbattiamo di continuo in sorprese, demolizioni di miti, correzione di errori comuni, curiosità storiche. Nel 1818 il ministro della Guerra John C. Calhoun dette l’incarico a un viaggiatore di guidare una spedizione a ovest, tra il Mississippi e il New Mexico nordorientale. Non si spinse più in là, in ogni caso battezzò la sua impresa con il nome di “Gran Deserto Americano”, che divenne poi uno slogan. Altri, alla ricerca di spazi nuovi, di libertà e dell’oro andarono ben oltre.
La “frontiera” divenne, dopo la guerra Messico-Usa, una valvola di sfogo. Lì comune era la convinzione di poter “ricominciare da capo”. Quelli che dall’Europa erano sbarcati sulla west coast, consideravano New York, Boston e altre città solo “una tappa”. Carovane di nuovi pionieri verso una vita estremamente dura, in un ambiente che prevalentemente era “anti-intellettuale e materialista”. L’autore trova il modo di smentire tante false leggende, tra cui quella della battaglia di Fort Alamo (tra febbraio e marzo del 1836, assedio di 13 giorni: tutti i 189 texani uccisi dai messicani; sarebbe seguita poi una feroce vendetta e la “reconquista”). Alamo ci ricorda immediatamente Davy Crockett. Due precisazioni storiche inficiano il suo mito: non è vero che indossava un cappello di pelliccia di procione e, innanzitutto, durante una fase dello scontro tentò di arrendersi. Tra i combattenti William Travis, era affetto da malattia venerea e non lanciò mai la leggendaria sfida tracciando con la spada una riga nella polvere incitando i più coraggiosi a unirsi a lui. Un altro degli assediati, Jim Bowie, speculatore terriero, era un “massacratore di apache” ai quali aveva rubato un’ingente quantità di oro per poi nasconderla proprio “in una buca nelle fondamenta di Alamo”. Il generale San Houston era un oppiomane: bel punto di riferimento! Il nostro viaggiatore- reporter racconta poi della città di Amarillo (Contea di Potter, Texas). Qui nacque l’inventore del filo spinato, “che fece crollare gli imperi dell’allevamento, trasformando radicalmente una distesa libera e aperta”. A McLean, nel Texas, è visitabile il museo dedicato alla “corda del diavolo” (oltre 700 varietà). Oggi Amarillo (che in spagnolo significa giallo) è la capitale mondiale per la produzione dell’elio.
Cuentos. Il ragazzino Ernesto ha una madre dal corpo estremamente sensuale. Tra i suoi amici si sparge la voce (vera) secondo cui la donna fa la prostituta in un locale, “Alabama”, gestito da un turco. Di giorni facciata irreprensibile, di notte no. Gli amici di Ernesto sono curiosi, vorrebbero andarci a letto, sia pure tra tanti scrupoli (“…se non fosse la madre di…”e poi:” lei ci guarderà…e come ci guarderà?”). Certi particolari “forti” hanno una spinta formidabile, come accade per tutti noi, senza alcuna distinzione : “…ci ricordiamo tutti di quella sera in cui lei stava pulendo il pavimento, ed era estate, e chinandosi la scollatura a maglia le si era staccata dal corpo, e noi lì a tirarci gomitate”. Insomma, alla fine ci vanno e si ritrovano in una stanza che assomiglia a uno studio dentistico. Si trovano davanti la donna, bionda e non più bruna, con la vestaglia dai lembi maliziosamente scostati. Quel che accade non lo riveliamo, per rispetto del lettore. Il racconto fa parte di una raccolta di Abelardo Castillo (argentino del 1935), considerato erede del più grandi narratori della “argentea” (così veniva chiamata l’Argentina” prima dell’indipendenza nazionale: insomma, un colore all’interno dell’America del sud). La sua raccolta s’intitola I mondi reali, ed è meritoriamente pubblicato dall’editore Del Vecchio (262 pagine, 16 euro). Editore che non è l’unico a ripescare testi “latinos”, basta citare quella miniera d’oro che è l’editrice romana Sur. Nella bellissima postfazione di Elisa Montanelli, nonché ottima traduttrice, veniamo a conoscere che per secoli l’argentina “subì” i romanzi europei. Poi il riscatto, imperniamo appunto sui racconti, i “cuentos”, che hanno grande fortuna di vendita. Elisa Montanelli ci informa che Castillo ha al suo attivo oltre settanta racconti, quattro romanzi e due pièce teatrali, senza contare un’infinità di articoli, prefazioni e saggi critici. Castillo è uno dei più noti scrittori dell’Argentina, paese dove è stata molto forte l’influenza di Edgar Allan Poe.
Presenze. Debbo confessare, sempre che importi a qualcuno, di aver avuto una forte idiosincrasia per quelle pagine che contengono gli angeli, o comunque quegli esseri alati, quanto mai ficcanaso, i cui odore è un misto di pietas, scherzo, missione, interferenza nel libro arbitrio. Nel segnalare la bella raccolta di Chris Adrian, intitolata Un angelo migliore (edito da Einaudi, 229 pagine, 18 euro) mi sono in parte ricreduto. Forse a causa della bella scrittura: Adrian (medico-scrittore e indicato dal New Yorker come uno tra i venti migliori narratori americani under 40). Nel racconto che dà il titolo alla raccolta, il protagonista fin da bambino è trascurato dalle sorelle, a tal punto che, quando diventerà medico (e tossico) a lui affideranno interamente la cura del padre malato di cancro. L’angelo spunta nelle vesti di una bambina, con la pelle scurissima: “Non le diedi retta”. Poi quella creatura si alzò in piedi su un ramo e dispiegò le ali. Da quel momento quell’entità sempre cangiante, lo accompagnerà, precisando fin dall’inizio: “Non sono quel tipo di angelo”. Lo affermò mentre era ai piedi del letto del padre, in ospedale, nella veste sobria di dottoressa, con un elegante chignon e dotata dell’immancabile stetoscopio. Le sorelle del protagonista continuano a stare alla larga dal padre e dicono al fratello: “Tu sei un dottore”. Lui, annota l’autore, pensò:” Sono un medico inabile”, incapace di “imboccare la strada di mattoni della riabilitazione” (spesso si chiude in bagno per assumere la sua “dose”). Se lui ha voglia di starsene solo, in santa pace, non c’è verso: il suo angelo, sempre mutevole, compare. “Dato che può viaggiare alla velocità della colpa e talvolta sembra essere da tutte le parti contemporaneamente”. Un impiccione, che però alla fine si fa piccolo e brutto “come le persone che hanno pianto” quando il medico accompagna gli ultimi istanti di vita del padre abbracciandolo con commozione e affetto.