Fa male lo sport
Esterofollia & Calcio
Metà dei calciatori della Serie A sono stranieri. Merito di affari opachi, trattamenti ambigui e necessità di illudere le curve. E intanto club e nazionale crollano nei ranking internazionali
Handanovic (Slovenia), Donkor (Ghana), Vidic (Serbia), Ranocchia (Italia), Dodò (Brasile), Medel (Cile), Guarin (Colombia), Shaqiri (Svizzera), Kovacic (Croazia), Podolski (Germania), Palacio (Argentina). Nel secondo tempo giocano anche: Icardi (Argentina), Brozovic (Croazia) e Puscas (Romania). Questa è l’Inter scesa in campo domenica primo febbraio 2015 a Reggio Emilia contro l’italianissimo Sassuolo. 13 giocatori stranieri e la formazione iniziale era una squadra da record: 11 uomini, 11 nazionalità diverse. Finì 3-1 per gli emiliani contro l’Internazionale, di nome e di fatto.
L’Italia è un paese che rifiuta gli stranieri ma li accoglie a braccia aperte nello sport. Anzi lì siamo ammalati di esterofilia. Non solo nel calcio. Nel basket i quintetti sono quasi tutti formati da americani spesso mediocri a differenza delle “stelle” che sono venute nel passato: nella scorsa stagione i giocatori italiani hanno disputato il 27,5% dei minuti complessivi. Volley e rugby non sono da meno.
Se una ventina di migranti devono essere sistemati da qualche parte in via provvisoria, si è pronti a mettere a ferro e a fuoco le nostre periferie. Con tanto di contorno di saluti romani e slogan razzisti (come allo stadio dove, se lo straniero ha la pelle scura, si prende insulti e striscioni vergognosi). Ma se il calcio ora malmesso, la quarta “industria” dello stesso paese, come si diceva fino a qualche anno fa, viene invaso dagli stranieri nessuno organizza proteste o allestisce barricate. Si verifica l’opposto, invece. Si aspetta infatti con ansia e curiosità crescenti il nome del prossimo acquisto stranger del nostro club del cuore. Quest’anno poi le società non badano a spese con rischi altissimi per i già precari bilanci. Ma non siamo in grado di prendere i top player. Ci si deve accontentare di atleti di seconda e terza fila, campioni già “spremuti” (vedi la telenovela Ibrahimovic) o, più spesso, sconosciuti. Troppi stranieri e di frequente anche inutili. Nell’ultimo campionato 109 stranieri hanno giocato meno di 8 partite da titolari.
Nella stagione 2012-2013 in serie A giocarono 368 calciatori stranieri su 705 tesserati, il 52,19 %: 1 giocatore su 2 veniva da un altro paese. L’Inter ne aveva 33 su 49, la Fiorentina e la Lazio 23 su 34. Alzi la mano chi si ricorda di Facundo Parra (Atalanta), Uros Radakovic (Bologna), Erick Cabalceta (Catania), Allan Blaze (Genoa), Vykintas Slivka (Juve), Morten Knudsen (Inter), Pavol Bajza (Parma). Un campionato dopo, 2013-2014, gli stranieri arrivarono a 522 su una base più larga di ben 1161 tesserati: 44,96 %. Nella scorsa stagione è sceso il numero dei tesserati (555), ma gli stranieri sono stati 304, il 54,7 %.
Questi numeri uniti ad un’analisi molto concreta sono contenuti in un libro edito da “ultra sport” e scritto a quattro mani da due giornalisti, Mirko Nuzzolo ed Enrico Turcato, che ha per titolo: Stranieri. Che vale la pena sfogliare anche per le tabelle, molto esplicative, che contiene.
Nel dicembre che verrà saranno vent’anni dalla sentenza Bosman: la Corte di giustizia dell’Unione Europea stabilì che le regole del calcio erano contrarie alla libera circolazione dei lavoratori europei e in contrasto con quanto recitava un articolo del Trattato di Roma. Fu il principio della valanga, lo spartiacque, l’avanti e il dopo.
Avanti la sentenza Bosman, campionato 1994-1995, l’ultimo con le vecchie norme, nella serie A a 18 squadre giocavano 65 stranieri su 501 tesserati, cioè il 12,97% del totale. Chi ne aveva di più era la Lazio: 6 (ma si chiamavano Doll, Boksic, Gascoigne, Winter, Chamot). Autarchia assoluta invece per il Piacenza che rimase a lungo nella massima serie con soli atleti indigeni (salvo arrendersi negli anni Duemila dopo la risalita in A). In tempi più recenti c’è stata una Samp abbastanza italiana di Delneri.
Dopo il fascismo che aveva nazionalizzato argentini e altri sudamericani, dopo i “fuori quota” e gli oriundi, dopo i veti di Andreotti e i blocchi antistranieri post eliminazione ai mondiali del ’66 per mano di Pak Doo-Ik, una prima svolta ci fu all’inizio degli anni Ottanta quando si stabilì che si poteva far giocare uno straniero per squadra. Si proseguì con vari tesseramenti fino alla Bosman: cancellati tutti i limiti per i cartellini degli europei in A, B e C, si decise che di extracomunitari se ne potevano tesserare fino a 5, ma soltanto 3 potevano scendere in campo. Dal 2003 solo 1 e così fino a cinque anni fa, nel 2010, dopo il disastro in Sudafrica. Oggi in serie A si possono tesserare tutti i comunitari che si vogliono ma solo 2 extra. «Attenzione, però: una squadra, infatti, può comunque acquistare il cartellino e cedere il giocatore in prestito se ha raggiunto il numero massimo di extracomunitari. Non solo – scrivono ancora Nuzzolo e Turcato – basta un lontano parente in Europa per avere il doppio passaporto che elude la regola della Federazione». Venti anni dopo la storica sentenza, dunque, siamo arrivati al 54,7%, vale a dire 304 stranieri, come abbiamo visto. Capita così che «alla prima giornata del campionato di serie A 2014/15 lo speaker dello stadio Olimpico di Roma legga queste formazioni. ROMA: De Sanctis, Torosidis, Astori, Manolas, Cole, Nainggolan, De Rossi, Pianjc, Iturbe, Totti, Gervinho. FIORENTINA: Neto, Tomovic, Rodriguez, Savic, Alonso, Brillante, Pizarro, Vargas, Borja Valero, Babacar, Mario Gomez». 22 in campo, 4 italiani (tutti della Roma) e poi c’è il resto del mondo: Grecia, Inghilterra, Belgio, Bosnia, Argentina, Costa d’Avorio, Brasile, Croazia, Spagna, Australia, Cile, Senegal, Germania, scrivono i due autori.
Dal 1986 al 2006 il calcio italiano ha collezionato una larga serie di successi culminati nel mondiale vinto a Berlino. 6 vittorie e 7 secondi posti in Champions, clamoroso quello che avvenne tra il ’92 e il ’98: 7 finali consecutive con 7 squadre italiane, e ancora una finale tutta italiana nel 2003 tra Milan e Juve. 9 vittorie e 6 secondi posti in Coppa Uefa poi dal 2009 battezzata Europa League da Michel Platini. L’ultimo successo in Champions è stato con l’Inter di Mourinho, 2010, la stagione del triplete. Ma nella finale di Madrid contro il Bayern Monaco (2-0, doppietta di Milito) nella formazione milanese (nata agli inizi del ’900 da una scissione dal Milan proprio per una questione di stranieri, guarda caso) non c’era neppure un italiano. In pieno recupero, oltre il 90° minuto, il Number One delle panchine, Mourinho appunto, fece togliere la tuta a Materazzi. In Brasile, un anno fa, la nazionale si è ripetuta: subito fuori. Questa stagione la Juve è arrivata in finale Champions perdendo contro il Barcellona e in Europa League avevamo due squadre, Napoli e Fiorentina, in semifinale: ma il trofeo se lo sono giocati Dnipro e Siviglia.
Dal 2006 è cominciato un lento declino che, tra l’altro, ha portato dal 2011-2012 ad avere una squadra in meno nella Champions. L’Italia ha mantenuto il primo posto nel ranking del calcio – si legge nella seconda parte del libro – dall’89 al ’99 (tranne che nel ’90). Nella stagione 2010-11 è iniziata a retrocedere fino a scendere al quinto posto nel 2014-15 dietro il Portogallo. A febbraio di quest’anno la prima squadra italiana della graduatoria è il Milan, al 20° posto. Subito dopo la Juve.
È tutta colpa degli stranieri? La crisi del nostro calcio ha tanti padri: una gestione dissennata e famelica delle risorse, la scomparsa dei vivai, gli scandali che si susseguono da tempo, l’affidarsi a maneggioni, fannulloni e intrallazzatori, oltre che a dirigenti, che producono corruzione (ma ora abbiamo anche l’inno di Allevi e quindi siamo a posto…), l’assalto della criminalità mafiosa, il livello tecnico mediocre del campionato.
Sulla isteria per gli stranieri giocano molti fattori: mediamente un elemento che viene da fuori costa di meno rispetto agli italiani, che sono in minoranza a questo punto, e quindi i club, soprattutto i medi e i più piccoli, si tuffano alla ricerca del futuro campione che possa garantirgli delle provvidenziali plusvalenze nel futuro. Così tra qualche buon elemento arrivano spesso dei veri e propri bidoni. Succedeva anche in tempi non lontanissimi: al Milan di Sacchi capitò José Mari (nella foto), alla Juve Esnaider, alla Roma Bartelt e Fabio Junior, quattro reti a testa e un buco spaventoso nelle casse dei Sensi. Ma con i nomi esotici si imbrogliano i tifosi.
Con gli stranieri si ottengono agevolazioni nei pagamenti evitando le fideiussioni bancarie che all’estero non sono richieste. Per non parlare degli intrecci non sempre limpidi tra mediatori, procuratori e dirigenti delle stesse società sui trasferimenti dall’estero.
Quest’ultima osservazione veniva fatta lo scorso anno su Sportweek , il magazine della Gazzetta dello Sport, nelcorso di un’inchiesta di Fabrizio Salvio il quale rivelava come il Gruppo antiriciclaggio del G7 ha indagato su questi intrecci. Il Gruppo «punta il dito contro le società create ad hoc nei paradisi fiscali e capaci di gonfiare il valore dei giocatori, in particolare di B e C per un ammontare globale di oltre 5 miliardi e mezzo di dollari. Un sistema operativo specie tra Europa e Sudamerica, che non riguarda solo l’Italia e che renderebbe (soprattutto agli agenti) 264 milioni di euro all’anno di profitti legali e incalcolabili redditi in nero per alcuni, procuratori e dirigenti, legati a quelle società offshore che servono a schermare questo giro di denaro che il fisco italiano tasserebbe pesantemente». Ancora più interessante quello che scrive subito dopo Salvio: «Come avviene l’operazione? Lo ha spiegato all’Espresso proprio un ex procuratore rimasto anonimo: “La società offshore proprietaria del calciatore riceve dal club acquirente i soldi per il trasferimento e ne trattiene una quota. Di fatto il giocatore vale meno del dichiarato. E la differenza, che finisce nelle tasche dei procuratori, è esentasse”».
Ma come si comportano gli altri con gli stranieri? L’Inghilterra non pone limiti agli extracomunitari in squadra ma devono avere il permesso di soggiorno e con almeno il 75% di presenze nelle proprie nazionali negli ultimi due anni (così si hanno atleti di qualità). Nessuna limitazione anche in Germania, Olanda, Belgio; in Spagna non più di 3, in Francia non più di 4. Germania e Spagna, però, che dominano il calcio mondiale, hanno un’attenzione particolare ai vivai. «In Bundesliga, per legge, i club devono investire almeno il 10% del loro fatturato nei vivai, dunque una media di 4,4 milioni di euro a società per i settori giovanili, mentre in Italia si spende esattamente la metà, 2,75 milioni». La Roma è il club che dedica una quota di bilancio superiore alle altre squadre della serie A per il settore giovanile: ma si tratta di un esiguo 5,6%. Il Cies, l’Osservatorio del calcio europeo, ha dedicato uno studio sull’argomento. E ne usciamo malissimo: «…in Italia i giocatori che hanno giocato almeno tre anni nel vivaio di una squadra di serie A per poi continuare la loro esperienza con la stessa maglia sono appena 8 su 100, la percentuale più bassa di Europa». Meglio di noi Turchia, Grecia, Romania, Svizzera senza prendere in considerazione le grandi potenze calcistiche: in Francia sono il 23%, in Spagna il 21,1%, in Olanda il 20,6% (l’Ajax ha un obiettivo: ogni due anni, tre giocatori per la prima squadra), in Germania il 16,6%, in Inghilterra il 13,6%. Crescere in casa dei calciatori produce vantaggi economici e contribuisce a mantenere l’identità di un club. E quando parliamo di ragazzi, ci riferiamo anche a quelli nati in Italia da genitori emigrati. Tanto per chiarire con quelle canaglie che urlano negli stadi che «non esistono neri italiani». Quando Sacchi disse con una espressione molto infelice che nei campionati giovanili c’erano «troppi neri», intendeva però sottolineare che anche lì spesso si prendono giovani dall’estero senza nemmeno averli visti giocare. E con mercanteggiamenti spesso borderline.
Tra i primi 50 vivai al mondo, soltanto 5 sono italiani in una classifica stilata dallo stesso Osservatorio lo scorso anno dove, manco a dirlo, primeggia la cantera del Barcellona: 43 giocatori delle giovanili blaugrana si esibiscono nei campionati top (13 di essi sono nella prima squadra campione d’Europa). La graduatoria valuta il numero dei giocatori cresciuti nelle giovanili per almeno 5 anni e che oggi giocano in uno dei 5 campionati maggiori. Dopo il Barcellona, troviamo il Manchester United e, poi, il Real Madrid. La prima squadra italiana è al 9° posto: l’Atalanta con 22 atleti lanciati dal settore giovanile (5 giocano in prima squadra), al 19° posto l’Inter (18) e la Roma (17). In definitiva, siamo quint’ultimi in Europa per i calciatori portati dalla Primavera in prima squadra (0,3 per ogni club), in compenso il nostro campionato è quello con l’età media più alta: 27,3 anni.
Si tenta di correre ai ripari con una riforma per quanto riguarda l’impiego degli stranieri. Riduzione delle rose a 25 elementi, di cui 4 cresciuti in Italia e 4 cresciuti nel vivaio del club. Regole più restrittive per l’impiego degli extracomunitari. Verrà applicata dal campionato 2016/17.
Non si può tornare indietro. Ma nello sport, parlare soltanto di globalizzazione è sbagliato, l’identità nazionale va tutelata: è un fatto culturale, non sportivo. Altrimenti non si correggono gli eccessi. Ha sottolineato Roberto Beccantini nella prefazione di Stranieri: «Dal calcio al basket… la manodopera italiana ha perso la maggioranza ed è passata all’opposizione. Là dove c’entra il merito, mi inchino. Là dove, viceversa, c’entrano la tratta degli schiavi (dall’Africa soprattutto), le creste degli agenti, l’oppio per tenersi buone le piazze, mi indigno». Ecco, indigniamoci.