Paolo Conte a Umbria Jazz
Cronaca di un’ipnosi
Forza barbiturica, fragranze da Oceano Pacifico, parole lancinanti preannunciate da abili artigiani del suono, grandine emotiva, struggimento che fa tremare anche il paesaggio… Tutto questo ha regalato a Perugia un cantautore silenzioso
Perugia è città aggrottata da senso dell’inarrivabile. Foligno le sfugge di mano, si estenua per i suoi palazzi inforcati, per le tempie delle cattedrali. Le strizza l’occhio veleggiando su declivi non veri. Ci avviciniamo, almeno ci sembra di farlo, ma subito schizziamo via come palline da golf lanciate dal bastone dei giorni, rendendoci più distanti dall’obiettivo prescelto e meno saggi per qualcos’altro. Non vogliamo conoscere ciò che la siccità di luglio vuole intimarci. «Credete che non sappiamo i vostri giri di pensiero? Che sia semplice avere il muso alto da ogni siepe?» confessa la strada, nostro malgrado. Perugia è ora a venti ora a cinquantadue chilometri dai nostri rimorsi: nulla fa. Foligno – un errore che improvvisamente torna alla memoria e guasta le attese della sera – la vediamo prima e dopo l’uscita successiva. Non ce ne capacitiamo. Non quadrano i tempi, i modi, i quadranti. L’Umbria è simile a un lungo gioco di movenze tra il ristagno e la palingenesi.
La nostra – non mia – Polo bianca ha attraversato, quasi inghiottito le piane di Colfiorito con sicurezza specchiata, eppure si ingolfa adesso di affanno quando percorre gli incartamenti del nome stesso: Foligno. Il nome è arcigno. L’auto entra ed esce dal nome, non dalla via. Abbiamo sbagliato? La racchetta da tennis dello spazio ci spedisce in un campo altro, sperduti naviganti di monti acquatici la cui vettura sbuffa e segue una riga, un cono d’ombra inconsueto. Noi siamo su di un filo di confine, una retta che ci mantiene tra tenebra e luce e che osserviamo con sguardo isterilito. Mariachiara, sorridente e arrossata, legge finalmente la collocazione dell’albergo dal cellulare, ma la linea viene e va: sbagliamo due volte. Saliamo e scendiamo dai pinnacoli della collina. Da centro a decentramento, e viceversa. Un avanzamento che arretra.
Siamo lì a Perugia per il concerto di Paolo Conte all’Arena Giuliana, nelle maglie della prima serata di Umbria Jazz, festival oramai popolarissimo. Tutto questo ridondante preambolo è per ricreare l’atmosfera da Mocambo del cantautore astigiano. Dopo una birra mirifica che ci riporta all’esistenza naturale delle cose, le scale mobili ci scortano quasi fino all’entrata dell’Arena con circa due ore e mezza di anticipo. Ci addentelliamo alle sbarre dei cancelli: per noi solo gradinate e paura di perdere la gradinata migliore. Tentativo di perfezione nell’imperfetto. Una volta entrati, Mariachiara, novella Aglaia delle tre Grazie, contornata da bandana e rossetto, appena uscita dall’Ermitage, gironzola per gli stand gastronomici al lato sinistro dell’Arena. La osservo a distanza con premura, mentre occupo un cupo posto soddisfacente.
Paolo Conte è puntualissimo: giacca nera e maglietta pistacchio, esasperazione di fascino. Alle ventuno e trenta spaccate la sua voce pastosa si desquama e casca come pioggia ad aghi di pino dai microfoni. Crea immediatamente un’ambientazione esotica, un livore benefico, singulti vibratili di essenza. Resta inspiegabile come, per forza di un da-da-dum o di un chips du-du-du-du-du, Mister Tecnica riesca alternativamente a gelare il sangue o arroventare la cervice. Come di e Sotto le stelle del jazz irrompono dalle mani di musicisti esperti, artigiani del suono, impeccabili apparecchiatori delle sue parole lancinanti. In Alle prese con una verde milonga gocce di note schioccano dagli orli dell’avvenuto tramonto. «La sua origine d’Africa, la sua eleganza di zebra,/ il suo essere di frontiera, una verde frontiera/ una verde frontiera tra il suonare e l’amare,/ verde spettacolo in corsa da inseguire/ da inseguire sempre, da inseguire ancora, fino ai laghi bianchi del silenzio». Il pubblico, realmente rapito dalla suggestione, durante il suo stesso applauso si trasforma nel lago bianco del silenzio nominato e la verdezza del sentire si trasmette dal palco alla mente in un’ipnosi collettiva della sonorità. Mariachiara sembra avere gli occhi gonfi di gratitudine e lacrime trattenute.
È la volta di Aguaplano, nella quale un pianoforte a coda casca nel mare. «Non mi fido,/ in certi casi un pianoforte è un grido,/ ci sono gambe che si sfiorano/ e tentazioni che si parlano». Una fragranza di Oceano Pacifico attraversa gli astanti. Poi Gioco d’azzardo, semplice riflessione sugli inganni dell’amore che celano spesso, al suo interno, il radicato narcisismo del soggetto e il suo bisogno di sentirsi vivo fino alla nausea. Questa canzone è pervasa da una forza barbiturica: la cascata di trepidazioni si rovescia come il bastone della pioggia, non vola una mosca in tutta l’Arena, il paesaggio stesso si lascia intenerire dall’ascolto, l’incanto ghermisce. «Ma non parlo di te, io parlo d’altro/ il gioco era mio, lucido e scaltro./ Io parlo di me, di me che ho goduto/ di me che ho amato/ e che ho perduto./ E trovo niente da dire o da fare/ però tra noi si trattava d’amore». L’esecuzione di Diavolo rosso, sul finale di partita, dopo la grandine emotiva delle percussioni assillanti de Gli impermeabili, diviene esemplare. L’orchestra dà prova di sé con improvvisazioni e virtuosismi da far uscire il fumo in quelle mani rapidissime, operose di faticosa avvenenza. La serata si spegne sulla scrosciata di applausi – è l’ora di Via con me – a un cantautore silenzioso, lontano da sproloqui e battutine, interiormente caldo, creatore di bellezza e raccoglimento. L’Umbria e Mariachiara, in un identico sorriso, sono commossi. …
Dammi un sandwich e un po’d’indecenza
e una musica turca anche lei
metti forte che riempia la stanza
d’incantesimi e di spari e petardi
hey, come mi vuoi