Andrea Carraro
Un classico da rileggere

Chiedi a John Fante

Davvero è meritata la fama di capolavoro di "Chiedi alla polvere" di John Fante? A rileggerlo di scoprono i pregevoli eccessi, ma anche qualche finzione di troppo...

Dopo aver letto Chiedi alla polvere di John Fante (Einaudi) ti domandi se per caso non avessi troppo caricato questo libro di aspettative. Ne sentivi parlare dappertutto, accidenti: da scrittori e non scrittori. Un libro unico!, un classico del Novecento!, un capolavoro! Eppure non è la prima volta che ti capita con Fante di provare un pizzico di delusione. Beninteso, il libro è imperfetto ma intenso, squilibrato ma dotato di uno stile inconfondibile e inimitabile. Ma davvero non riesci a sentirlo come un capolavoro del Novecento americano.

Allora, sperando di cambiare idea, ti leggi l’introduzione al volume di Alessandro Baricco, bella introduzione davvero, nella quale capisci che forse Fante lo devi amare pure se (proprio in quanto) imperfetto, esagerato, squilibrato. Devi amare in Fante e nel suo capolavoro la storia d’amore prima di tutto: «lì c’è poco da dire. Gli era venuta veramente bene – scrive Baricco – tutta sghemba, senza eroi, irrisolvibile, un po’ ambigua, dolorosa». Devi apprezzare la scioltezza del racconto, i vari registri stilistici che vi convivono, l’humour, lo straziante sentimento poetico che spesso illumina la pagina. Devi entrare nel nucleo del suo cattolicesimo arcigno e blasfemo.

chiedi alla polvere di john fantePoi ti vai a leggere l’introduzione di Sandro Veronesi a Un anno terribile (Fazi), altrettanto bella, e cogli altri elementi di giudizio, per esempio quella sua «eterna giovinezza di romanziere»: «se la giovinezza è in lui così profondamente, è perché della giovinezza egli ha individuato il fungo magico, e ha saputo isolarvi l’intruglio che la produce, metabolizzandolo nella scrittura…». Veronesi riconosce in Fante la trascinante forza degli ormoni.

Chiedi alla polvere ha pagine indimenticabili ma anche momenti meno felici (come la parte sul terremoto, che mi è suonata più svogliata e ridondante). Il romanzo ha almeno due personaggi memorabili, il protagonista e la sua Camilla, la messicana che ama di un amore non corrisposto (lei ama un altro che la disprezza). Il protagonista è lo stesso scrittore che si proietta nell’immagine mitica di Arturo Bandini, a sua volta giovane scrittore in bolletta, che sogna di diventare famoso e grande (e lo diventerà) e consuma la sua vita fra baretti e alberghi di terz’ordine vagheggiando il suo riscatto. Il romanzo vive di queste proiezioni. Fante costruisce un giovane scrittore narcisista, come quando ascolta quasi in estasi la ragazzina Judy che legge il suo primo racconto pubblicato in una rivista. Quanta verità c’è in quella scena e quale scrittore non ha provato mai quel delirio narcisistico di sentire recitate le proprie cose?: «Mi buttai sul letto, seppellito faccia sul cuscino, mentre lei iniziava a leggere con voce così dolce che mi venne da piangere dopo le prime frasi. Era un sogno, era come se un angelo si fosse messo a parlare nella mia stanza».

Il tema eminentemente cattolico del peccato e della espiazione, che è quasi un marchio di fabbrica di John Fante, qui secondo me è meno amalgamato nella storia rispetto ad altri suoi libri. Più riuscita è una certa vena dell’assurdo, vedi la storia pazzesca della bistecca: Bandini e un suo amico hanno voglia di bistecca: allora vanno ad ammazzare un vitello e lo portano a casa tutto sanguinante e lo macellano. Alla fine del libro c’è un testo dello stesso Fante concepito come prologo nel quale lo scrittore italoamericano racconta la genesi del libro. «Così l’ho intitolato Chiedi alla polvere, perché in quelle strade c’è la polvere dell’Est e del Middle West, ed è una polvere da cui non cresce nulla, una cultura senza radici…».

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