“La relazione" e "La giostra degli scambi”
Camilleri uno e due
Perché i romanzi che Camilleri pubblica con Mondadori sono futili e di poco peso mentre quelli che pubblica con Sellerio sono sempre azzeccati? Illazioni su un grande della scrittura
Scrivo in prima persona nella presunzione, che non è poi così esagerata, che migliaia e migliaia di lettori siano d’accordo. Inoltre l’uso del noi è ormai annebbiato, vetero-giornalistico se vogliamo, oppure di sapore papale (lo stesso pontifex Francesco non è ligio alle regole). Se afferro un libro il cui autore è Andrea Camilleri, non solo non ho dubbio alcuno, ma sono contento di gustarmi pagine bellissime, senza aspettarmi alcun “tradimento” – leggasi cedimento – all’angolo. A patto però che il libro sia di formato piccolo, copertina blu e il basso la scritta “Sellerio editore Palermo”.
Se invece ho tra le mani un libro del medesimo autore, che però è edito dalla Mondadori, sono consapevole di trovarmi davanti a un romanzo di serie B, sia pure con scrittura corretta, levigata (fin troppo) e con una trama che talvolta è tirata come un elastico, a rischio grande di banalità inventiva. Insomma, un giallino che, se a Segrate lo porta uno senza raccomandazione in tasca glielo tirano indietro. O, come spesso accade, non ha manco uno straccio di risposta. L’ultima riprova è La relazione, edito appunto da una Mondadori (177 pagine, 17 euro) in attesa di diventare un pachiderma di carta con l’incorporazione della Rizzoli. L’autore è ovviamente Camilleri.
Quest’opera, che si svolge attorno al quartiere Prati di Roma (ove l’autore abita, peraltro), ha come protagonista il timido e rigoroso Mauro Assante, incaricato di redigere una relazione delicatissima su un gruppo bancario prima dell’esame finale (il rischio è il commissariamento) da parte delle massime autorità. Mauro, pignolo, abitudinario, scrupoloso, si trova a vivere e a lavorare da solo perché la moglie è in montagna a causa della salute cagionevole del figlio. Prima riceve una stonata telefonata da un gruppo editoriale: inesistente, come si appurerà. Poi suonano alla porta. Si presenta una donna attraente, Carla. La quale, astutamente ammette che ci dev’essere stato un equivoco. D’altra parte, aggiunge, è stata proprio l’agenzia di escort per cui lavora a fornirgli le coordinate giuste. Mauro la reincontrerà, deciso a scoprire l’autore dello “scherzo”.
Intanto da dietro i vetri delle finestre continua ad accorgersi della presenza di un giovanotto con grandi baffi. Ingenuo lo è, e non poco, Mauro Assante, ma fiuta una sorta di complotto. L’errore che compie è quello di fidarsi di Carla, della quale subisce uno stordente fascino, in una foresta di sensi di colpa coniugali. Carla promette e non mantiene, salvo rimettersi in scena, simulando la casualità. E lui ci crede, eccitato da questa caccia al tesoro, anzi di segreti. E poi la bella Carla fa rimescolare il sangue di un uomo il cui metabolismo di “fimminaro” è decisamente a passo ridottissimo. Il titolo del romanzo ha un significato duplice: relazione bancaria e relazione amorosa.
A questo punto – evito accuratamente di accennare al finale, come si conviene – la domanda principe è la seguente: perché Camilleri, straordinariamente prolifico, avverte il bisogno di imbastire libri «d’invenzione romanzesca che come tale vanno letti» (leggasi nella nota finale) quando, oltretutto, in molte occasioni, ha sempre confessato di non possedere l’arte della fantasia pura, affidandosi semmai a un “gnommero” (termine romanesco usato da Gadda per indicare garbuglio, intrigo) di vicende tutte ben incastrate? Perché, caro dottor Camilleri, fa uscire la sua penna da quel meraviglioso triangolo ragusano dove si muove così bene il commissario Montalbano assieme alla sua famiglia di sbirri e di siciliane adoranti?
Non voglio ricorrere alla psicoanalisi, verso la quale nutro una certa diffidenza. Possono bastare la logica, il conoscere o intuire certe cose, o il sano e intramontabile buonsenso. Io credo che Camilleri (il cui primo libro ha dovuto aspettare dieci anni prima di essere pubblicato), coltivi, forse ossessivamente, come modello Georges Simenon. Questi si divideva tra i racconti-inchiesta di Jules Maigret ( in tutto sono 76) e quelli senza il commissario parigino, i cosiddetti “roman-roman”. Noto perché padre di Maigret, Simenon è diventato scrittore straordinario (André Gide sosteneva che era tra i più grandi romanzieri viventi) con opere non strettamente poliziesche (ne avrebbe scritte quasi 300: “formidable!”, “extraordinaire!” dicevano e dicono a Parigi, e non solo nella “douce” Francia). L’altra faccia romanzesca del narratore franco-belga conteneva la capacità di uno scavo psicologico tratteggiato anche in un capoverso o addirittura in cinque-sei parole. Una pennellata da grande artista. Operazione che non riesce proprio a Camilleri: le sue operette mondadoriane, grazie al suo nome, compaiono una, due volte al massimo nelle classifiche dei libri più venduti: che saranno anche approssimative, ma a volte c’azzeccano.
Dottor Camilleri, rimanga nella sua Sicilia (lei si è definito «italiano nato in Sicilia»), sia fiero della sua ostinazione nell’impasto lessicale che pende verso l’agrigentino, come del resto quello di Luigi Pirandello che scrisse direttamente Liolà nel dialetto di Girgenti, quello più deputato al paragone con l’idioma italiano. Sia con Montalbano sia con libri a carattere storico (Il birraio di Preston è entrato in cinquina al premio Strega, se ricordo bene). Ha fatto benissimo a non dare retta al suo amico Leonardo Sciascia, scettico su quella parlata, quando controbatté: «Magari hai ragione tu, ma io insisto, a costo di avere solo decine di lettori». Le centinaia di migliaia di copie vendute a ogni uscita di “un Montalbano” gli hanno reso giustizia. Camilleri si distanziava da Sciascia parlando di “dialettitudine”, mentre il “maestro di Regalpetra” preferiva discettare sulla “sicilitudine”. E a proposito di opinioni isolane, va ricordato che il premio Nobel Pirandello sosteneva che di una parola la lingua italiana ne spiega il significato, mentre il dialetto va più in profondità perché ne esplora il sentimento.
Gentile e stimatissimo Camilleri: è Vigata (borgo d’invenzione lessicale) la vasca più adatta per i suoi pesci letterari, non il finto laghetto di Segrate, dove pare non planino più i cigni. Ci sono oche e anatre, ma, con tutto il rispetto per quella specie animali paiono non saper che farsene delle ali. Più o meno contemporaneamente all’uscita de La relazione (Mondadori), Camilleri ci ha regalato La giostra degli scambi, edito da Sellerio (255 pagine, 14 euro), tra le pochissime vicende, precisa l’autore, «che non abbiano origine da un fatto di cronaca… tutta di mia intenzione». Ancora una volta, in un clima vigatese d’insolita stranezza, Montalbano (“in rannicchiata solitudine”) prosegue – lo ha già fatto nelle ultime sue indagini – nell’insistere sui propri sogni, che paiono premonitori. Sogni mattutini, in “fase Rem” come dicono gli esperti, quindi più attendibili. C’è un forte senso d’irrealtà che avvolge tutto. Ma c’è anche un’accentuata e profonda capacità di ascolto umano di Montalbano, unitamente alla tenerezza che avverte dinanzi alle incipienti rughe e ad alcuni capelli bianchi dell’eterna fidanzata genovese Livia. Per la quale i lettori siciliani, e forse anche di altre regioni, non hanno mai manifestato una spiccata simpatia, in questo interminabile “gioco di pupari”. Che altro non è che la vita.