«Ritratto di madre in cornice americana»
Una madre di stile
Miklós Vajda, celebre traduttore ungherese dall'americano, ha pubblicato un romanzo sulla propria madre. E sulla sua propensione (pericolosa) per l'America
È nato a Budapest nel 1931 Miklós Vajda, scrittore esordiente a 78 anni. Il suo primo romanzo, Ritratto di madre in cornice americana appena tradotto in Italia dalla casa editrice Voland (208 pagine, 15 euro) è un piccolo gioiello che la casa editrice romana fa precedere da un’utilissima premessa della traduttrice Andrea Renyi. In essa si raccontano infatti, oltre alle vicende storiche di un’Ungheria passata in brevissimo tempo da regimi fascisti e comunisti di diversa natura fino ad entrare infine nell’orbita sovietica, anche garbate confessioni in cui la traduttrice si scusa per avere omesso una traduzione incomprensibile nella lingua italiana e per avere dovuto usare una consecutio temporum diversa da quella originale per essere in grado di restituire alla lingua italiana le caratteristiche della narrazione dell’autore. Sta di fatto che il libro scorre benissimo e il lavoro di traduzione sul piano della godibilità è eccellente. E soprattutto è rarissimo, di questi tempi dove si falsificano anche le proprie generalità oltre che le proprie capacità, che qualcuno abbia l’umiltà di dare al lettore spiegazioni di questa natura.
Il libro di Miklós Vajda è raffinato; la sua scrittura intensa, ma scorrevole, a tratti delicatamente commovente. Senza mai sbattere in faccia, come marchio di famiglia, l’aristocratico autocontrollo delle passioni, l’autore riesce a rispettare la sensibilità del lettore e insieme a comunicare l’intensità delle emozioni. Ma di cosa parla questo piccolo romanzo? Intanto di personaggi di grande levatura morale come non ne esistono più. Persone che attraversano con grande dignità una storia di orrori come è stata quella del novecento e che, specie in un paese come l’Ungheria che ha visto tracolli politici estremi in tempi brevissimi riescono a mantenere la loro umanità, la capacità di discernere il bene dal male e soprattutto una titanica voglia di ricominciare. Ma principalmente parla di un rapporto tra una madre e un figlio divisi sempre da una prigione qualunque essa sia e dovunque si trovi. Anche quando, attraversato l’oceano, è rappresentata da una cornice americana.
È curioso e tenero che l’autore, un importante intellettuale ungherese, traduttore dall’inglese tra l’altro di alcuni dei più grandi scrittori americani da Arthur Miller, a Harold Pinter a Mark Twain per citarne solo alcuni, (di cui di nuovo ci informa preziosamente la traduttrice nella premessa) decida alla sua veneranda età di parlare di sua madre ormai morta da tempo immemorabile e di ricordarne non solo la vita, ma anche lo stile fino alla morte. In un gelido inverno del 1956 l’anno dell’invasione da parte delle truppe sovietiche dell’Ungheria, una tragedia di portata epocale non solo per quel paese ma per l’ideologia comunista in generale, accade qualcosa che cambierà per sempre la vita di ambedue: madre e figlio.
Infatti Judith Chernovics o Csernovics, nobile di origine transilvana, sposata a un ricco avvocato ebreo ungherese, Vajda, il padre dell’autore, decide, dopo essere stata due volte in prigione (la prima sotto i fascisti delle Croci Frecciate a causa delle origini ebraiche del marito e la seconda sotto il regime comunista con l’accusa di avere diffuso notizie allarmistiche sul regime comunista), di emigrare negli Stati Uniti lasciandosi dietro in Ungheria il figlio venticinquenne. L’esperienza del carcere, dell’essere stata prigioniera, privata dei propri diritti e della libertà guiderà dunque tutto il racconto anche quando la donna, coronando il proprio sogno, vivrà a New York. Proprio la separazione tra madre e figlio fa sentire in colpa ambedue l’una per essersene andata l’altro per essere rimasto. «Deve dimostrare continuamente a se stessa e anche a me ora e sempre, che ha fatto bene a lasciare l’Ungheria… Il compito non è difficile, risulta ovvio che uscita di prigione per la seconda volta, ma sempre solo grazie alla sospensione della pena che avrebbe permesso ai suoi carcerieri di rinchiuderla di nuovo, volesse scappare, senza contare che anch’io insistevo con lei perché andasse via. Inizialmente feci finta di volerla accompagnare, quando però il viaggio – non privo di pericoli e molto costoso – fu organizzato, e per lei sarebbe stato molto difficile tornare indietro anche dal punto di vista psicologico, comunicai la mia intenzione di rimanere. Io invece dovevo dimostrare a lei e a me stesso che per me rimanere è stata la scelta giusta. Allora, non esente da pathos, credetti giusto non lasciare al suo destino la mia patria calpestata: cosa ne sarebbe stato se l’avessero abbandonata tutti?». Cosi si legge in una delle prime pagine del romanzo.
Miklós Vajda inoltre durante tutto il corso del libro descrive cosa fosse, agli occhi di sua madre, l’America. E il libro è proprio tutto un gioco di sguardi. Prima di tutti quello della madre per la quale l’America rappresenta la voglia di ricominciare e l’anelito alla libertà dopo una vita che l’ha provata duramente, ma non ha fiaccato il suo andare a testa alta anche quando sarà costretta a fare lavori umili come la baby sitter o la cameriera. Che farà sempre con grande stile, da vera nobildonna. Poi quello del figlio che la osserva quando per la prima volta rientra a Budapest in un viaggio che la spaventa a morte ,ma verso il quale assume un atteggiamento distaccato e apparentemente assente. L’America diventa dunque un luogo dell’anima che serve alla donna a rinascere, senza tuttavia riuscire ad allontanarla dagli affetti, primo fra tutti quello verso il figlio e a quest’ultimo a capire veramente chi sia la madre al di là degli atteggiamenti che volta a volta assume. «Lei sta tornando quella di una volta. quando scendiamo sotto casa con lo sguardo e risento la sua vera voce. Nota con piacere che hanno sistemato la facciata, la porta della nostra terrazza al secondo piano non dà più sul vuoto come in passato. Mi sento sollevato: questa è innegabilmente lei, ritrovo mia madre sotto la maschera della lady americana che conserva la sua americanità addirittura esaltandola, esce per due settimane dalla già nota cornice di plastica americana a buon mercato ma resistente senza però a riuscire a rientrare, né volendolo fare, peraltro, nell’antica e preziosa cornice lasciata vuota, abbandonata, perché non fa più per lei. Ora versa in uno stato d’animo a metà strada. Io anche, ma stabilmente. Le mie idee, i mei desideri, le mie esigenze mi portano fuori, ma ho scelto di vivere qui, nella soffocante prigionia delle bugie e degli odiati compromessi. Lei va a casa e si trova bene. Io sto a casa mi sento male». Un’America che ricorda insieme al figlio la prigione in cui sta vivendo e alla madre quanto è lontana da lui e quanto per ambedue sia difficile comunicare. «Mi devo difendere dall’America di mia madre. E anche da me stesso. Non torno mica in una giungla. Ma più si avvicina la partenza più si fa chiaro che in verità mia madre e io abbiamo avuto l’ennesimo colloquio fra detenuto e parente in visita. Un tempo avevamo soltanto quindici minuti al mese, ora ci vediamo ogni due anni ma più a lungo, eppure la situazione non cambia. Fra un incontro e l’altro possiamo comunicare anche per posta e telefono ma siamo censurati come prima, e probabilmente anche qui, in America. La differenza è che ora sarò io a essere riaccompagnato da soldati armati dietro le sbarre. Saranno loro a ricevermi all’aeroporto». Miklós Vajda sente anche tutto il peso che l’America gioca e ha giocato nelle loro vite cercando di guardare la madre con occhio distaccato, impietoso specie quando assume atteggiamenti e uno stile che fanno sorridere gli europei . «Dietro di lei ci sono gli Stati Uniti d’America con tutta la loro potenza, peso e forza. L’abbigliamento per l’occasione, il trucco più pronunciato del solito, la sua posa maestosa nella porta del vagone intesa a nascondere la forte eccitazione ma che non riesce a domare, mandano o meglio mostrano questo messaggio, Un’americana antipatica e piena di sé che crede di essere arrivata in Congo, penserei di lei se non la conoscessi».
E il suo sguardo distaccato ma affettuoso si spinge fino alla fine della vita quando ne vede tutta la fragilità e la forza allo stesso tempo e la vorrebbe vicino, cercando di piazzarla, come si fa con i morti, nei luoghi a lui più cari, ben sapendo che ormai è dentro di lui. Proprio in quella cornice americana che da lui l’ha allontanata. A metà del libro è come se volesse ravvicinare i tempi e le chiedesse alla fine della sua propria vita di incontrarla di nuovo domandandosi se, vecchio come è, lo riconoscerebbe. In una scena intensa e struggente scrive: «Non so se invecchiando, e con mia madre morta da sempre più tempo, mi stia allontanando da lei. Ormai siamo rimasti in pochi quelli che l’avevano conosciuta di persona… non mi riconoscerebbe se nelle sue sembianze di allora mi venisse incontro per la strada “Judith vede quel vecchio? Sì quello che ci sta venendo incontro con il bastone. Mi sembra suo figlio”. “Chi? Quello lì? Ma davvero? Non può essere! Oh Gesù Maria!”. E il tizio mi farebbe cenno di avvicinarmi alla sedia a rotelle e mi presenterebbe. Oppure al contrario: mi sto avvicinando all’incontro con lei, che ritengo assai improbabile, seppure annunciato dalla nostra religione? È sempre presente anche nei miei sogni, spesso anche quando non la sogno. E anche quando non figura nelle storie più assurde, qualche volta ridicole, qualche altra verosimili avverto comunque spesso la sua presenza».