Al Napoli Teatro Festival
Un Goldoni in nero
Maurizio Scaparro ripropone “La bottega del Caffè” di Goldoni con Pino Micol e Vittorio Viviani. Un testo durissimo sulla borghesia, sui suoi affari e la sua dubbia morale
Un bar per sfaccendati accanto a un locale bisca dove la gente si rovina giocando con le macchinette, spaccato di una società in crisi che deve trovare in sé la forza di reagire, un po’, possiamo pensare, come la Venezia settecentesca spensierata e mercantile al culmine del suo sviluppo ma allo stesso tempo viziosa all’inizio della decadenza, quella a due facce appunto che presenta Carlo Goldoni ne “La bottega del caffè” su cui ha lavorato con fedeltà all’originale la regia di grande eleganza e di una pulizia oggi rara firmata da Maurizio Scaparro per il Napoli Teatro Festival, prodotta dalla Fondazione Teatro della Toscana, e in arrivo al Piccolo di Milano per l’Expo.
Un testo classico e scritto in italiano di Goldoni, datato 1750, dai caratteri «umani, verissimi, e forse veri – come ha scritto lo stesso autore – ma io li traggo dalla turba universale degli uomini, e vuole il caso che alcuno in essi si riconosca». Davanti alla bottega del caffé, dove il prepotente e arrogante Don Marzio vestito di nero semina zizzania, con maldicenze vere e inventate, subdolo e infido, amichevole e falso con la verità e le ombre che gli regala un Pino Micol in gran forma, sempre a indagar su tutto con i suoi occhialetti, c’è la bisca clandestina di Pandolfo che favorisce bari e approfittatori come il finto Conte Leandro (ben disegnato da Ruben Rigillo), che stanno riducendo sul lastrico l’ingenuo Eugenio (il bravo Manuele Morgese), commerciante di stoffe e vinto dalla passione del gioco, figlio dell’ex principale del caffettiere Ridolfo e che lo aiutò ad aprire la sua bottega. Per questo si sente in dovere di riconoscenza e non smette mai di darsi da fare, di aiutare, di far prediche a Eugenio perché si ravveda e torni dalla sua bella moglie Vittoria, che sta portando alla disperazione.
Sul campiello della bottega (scene e costumi di Lorenzo Cutoli), come una donnina seducente di un carillon, si affaccia ogni tanto dal suo balcone una ex ballerina giovane e bella, o arriva una pellegrina piemontese alla ricerca del marito fedifrago, il tutto a movimentare e articolare lo sviluppo delle vicende generali, sino al finale con i cattivi puniti o ravveduti e solo Don Marzio sempre lì, libero, inquieto e minaccioso, che si interroga se andarsene da Venezia.
Il sipario cala su un’ombra, quella nera e funesta controluce di Don Marzio, il personaggio chiave e malevolo di questa commedia ricca di risvolti oscuri aperti su un incerto futuro. Come su alcune ombre si era aperto all’inizio, con una Venezia notturna, scura ambigua, che, illuminandosi in una mattinata di un giorno di carnevale, si popola spensierata e giocosa di ombre di maschere tra cui compare anche un Arlecchino, quindi si presenta il caffettiere Ridolfo, che ha il bel carattere, la incisiva varietà di gesti e toni che gli dà Vittorio Viviani col necessario tocco di retorica, uomo dal carattere positivo e ricco di buone intenzioni. E non a caso Don marzio è straniero, napoletano, e rappresenta le cattive influenze che arrivano a inquinare la Serenissima, e il secondo, che in una prima versione era un Brighella col servo Arlecchino, è un veneziano con Trappola ragazzo di bottega.