In memoria di un divo del calcio
Storie del Petisso
«Sono un napoletano nato per caso all'estero», diceva di sé Bruno Pesaola, in arte il Petisso: l'uomo che fece sognare la Napoli del calcio anni Sessanta. Malgrado il laurismo
A quei tempi, anni Sessanta, le panchine allo stadio San Paolo venivano messe una da una parte e una dall’altra parte del campo lungo la linea del fallo laterale. Gli ospiti sotto la tribuna, quella del Napoli sotto i distinti. Le panchine non erano i salottini griffati di oggi. Erano delle panche di legno lunghe e piuttosto basse. La domenica mi mettevo sopra la panchina di Pesaola, nei distinti appunto: avevo un abbonamento che mio padre pagava a rate, con trattenute sulla busta paga. E a fine partita facevo con gli altri amici un gioco: scommettevamo sui pacchetti di sigarette ormai vuoti che il Petisso aveva buttato attorno alla panchina.
Sigarette, whisky e poker. E quel cappotto di cammello che metteva anche in primavera quando cominciavano i primi caldi. È che aveva sempre freddo, anche per questo aveva lasciato Novara, da calciatore, per trasferirsi a Napoli, calda e coinvolgente, e crossare la palla per Jeppson, detto ‘o Banco ’e Napule per l’alto costo, 105 milioni di lire. «Quando allenavo il Napoli, uscì fuori la storia del cappotto portafortuna ed io ci giostravo dentro con questa cosa. I giornali scrivevano, a me stava bene. Me l’hanno rubato, peccato, io ci tenevo perché era un capo di alta classe, l’avevo preso a Parigi». Faceva l’alba a parlare di calcio con qualche amico giornalista in un bar del Vomero. Quando il cameriere chiedeva – ha raccontato Mimmo Carratelli che è stato suo grande amico e biografo – se doveva portare un po’ di whisky, lui lo riprendeva scherzando: «E chi ha detto un po’…?». È stato un Mourinho di quegli anni lontani, un grande comunicatore, quasi uno showman: battuta sempre pronta, ironico, arguto. Non arrogante come il portoghese. Si vantava di aver segnato più gol di Pelé: «Mister, non dica sciocchezze…». «Mille gol, altro che… nessuno di voi ricorda la sigla della vecchia Domenica sportiva, quel gol che si vedeva ad inizio trasmissione era il mio, lo segnai a San Siro contro l’Inter, angolino alto a destra del portiere che era Matteucci… mille gol, forse più. Quante saranno state le puntate della Domenica sportiva della Rai?…». E un’altra volta a Bergamo, ma allenava il Bologna, promise che avrebbe fatto fare ai suoi una partita tutta d’attacco. In realtà schierò gli undici quasi sulla linea di porta, a difendere il fortino. A chi gli fece poi notare che aveva tradito la promessa, se ne uscì: «E l’Atalanta mi ha rubato la idea…». La idea non l’idea, con quel suo accento che era una cantilena spagnoleggiante.
Si affollano i ricordi a parlare di lui, ora che non c’è più. Si avverte il profumo dei sabato sera come un sabato del villaggio in attesa del rito della domenica: Mina, le Kessler, McRooney e don Lurio. Ma anche Carosello, Alberto Lupo e il dottor Manson, Gino Cervi e Maigret, Tv7 e Specchio segreto di Nanni Loy. I Processi alla tappa di Sergio Zavoli. E gli Orizzonti della Scienza e della Tecnica di Giulio Macchi. Perché erano gli anni del da-da-um-pa e della divulgazione. Quando acquistavi anche un paio di settimanali sportivi alla settimana. A Napoli ce ne erano addirittura due: Lo Sport del Mezzogiorno che usciva il venerdì e SportSud in edicola il martedì.
Il laurismo stava declinando. Fu Achille Lauro a chiamare Bruno Pesaola – il Petiso, ’o Petisso, il piccoletto, ’o Molosso nell’Uomo in più, il film d’esordio di Sorrentino – sulla panchina del Napoli che precipitava verso la serie C, dopo essere scivolato in B. Era il 1962. Pesaola era stato un dio ai tempi dello stadio del Vomero, dieci anni prima, quando faceva l’ala sinistra e mandava a segnare Jeppson e Vitali. E poi Vinicio. Negli anni Cinquanta il calcio era servito molto a Lauro, che tutti chiamavano ’o Comandante per via della flotta che era riuscito a ricostruire dopo la guerra con intraprendenza e capacità imprenditoriali, grazie anche agli Alleati e agli inglesi in particolare, presso le cui banche, si diceva, avesse depositato il suo patrimonio. Lauro aveva costruito a modo suo una squadra spettacolare. Raccogliendo pochi successi ma un grande consenso elettorale. Lo slogan fu: «Un grande Napoli per una grande Napoli». Perché don Achille usò qualsiasi mezzo per entrare a Palazzo San Giacomo, alla testa del partito monarchico: anche il fanatismo dei tifosi, oltre alla pasta e alle scarpe. Siccome la storia va revisionata ad ogni costo e molti personaggi, soprattutto se di destra, vanno rivalutati, oggi c’è una scuola di pensiero che vorrebbe Achille Lauro santo subito.
Quando Pesaola arrivò ad allenare gli azzurri, tutto si era compiuto. E il mare non bagnava più Napoli da un pezzo. Dal 1951 al 1961 il Comune di Napoli rilasciò più di 11 mila licenze edilizie per costruire oltre 300 mila vani tra Posillipo, il Vomero e i Colli Aminei. Le mani sulla città portarono crolli, voragini, una colata di cemento che si paga ancora oggi. Senza fogne, senza servizi, senza niente. Il popolino lo adorava. Nel ’56 ricevette oltre il 51% dei voti. Il sindaco e parlamentare di Stella e Corona faceva così, come Bossi solo qualche decennio fa: a Napoli tuonava contro il potere centrale, a Roma metteva i suoi deputati al servizio dei governi democristiani quando occorreva, nel nome dell’anticomunismo e secondo il più classico trasformismo meridionale. In cambio di favori e chiusure di occhi di fronte al sacco della città e alla corruzione. Allora dilagante come oggi.
Pesaola riuscì a riportare in Napoli in serie A e a vincere addirittura la Coppa Italia all’Olimpico contro la cara, vecchia Spal, gol di Corelli e Ronzon. Unica squadra di B a prendersi la coppa nazionale. Ma quel Napoli era comunque fragile e soggetto ad alti e bassi, alle bizze del presidente e al suo portafoglio. Un anno dopo quell’impresa retrocesse in serie B di nuovo, nonostante Pesaola. Nella maniera peggiore.
Quella domenica 28 aprile 1963 si votava per la Camera e per il Senato. Al San Paolo, quart’ultima giornata di campionato, si giocava Napoli-Modena. Il Napoli aveva bisogno assoluto di vincere. Invece perse 2-0 con l’arbitro, il signor Campanati, che commise molti errori. Successe il finimondo: invasione di campo, giocatori rincorsi fino all’ingresso degli spogliatoi, polizia che arrivò quando anche le traverse delle porte erano state abbattute. Ricordo le camionette verdi a sirene spiegate sul campo di gioco ma i vandalismi e la caccia all’uomo erano terminati: 148 fermi, 62 feriti, 130 milioni di danni. Si disse anche che tutto fu organizzato per indebolire Lauro. Il quale uscì ammaccato dalle urne: il Pdium, cioè il Partito democratico italiano di unità monarchica, subì una pesante sconfitta. Raggranellò l’1,75% alla Camera ed 8 seggi, l’1,56% al Senato e solo 2 seggi. Il vento era cambiato, il centrismo era al tramonto, cominciavano gli anni del centrosinistra. La Dc risaliva la china nell’antica capitale del Sud e già nel maggio del 1958 aveva superato il 40%. Lauro aveva recuperato qualcosa nelle Comunali del ’60, ma i Gava erano già il nuovo potere: Silvio capogruppo dc al Senato, Antonio nel Consiglio provinciale. Controllavano i finanziamenti pubblici, le banche. In maniera meno rozza e più moderna, funzionale: le Partecipazioni statali, la Sme, l’Iri, l’Isveimer. Lo smacco più grande per don Achille fu quando sette dei suoi consiglieri passarono nelle file dello scudo crociato: i «sette puttani» come vennero bollati dal suo giornale, il Roma.
Tutto questo non sfiorava Pesaola, «un napoletano nato per caso all’estero» come amava ripetere. Il Petisso compì un capolavoro quando Roberto Fiore, subentrato a Lauro al timone della società per pochi anni, andò a prendere Sivori e Altafini dalla Juve e dal Milan. Per il primo intervenne anche don Achille che convinse Gianni Agnelli a cedere l’argentinoa un buon prezzo. In cambio avrebbe preso dalla Fiat dei motori per le sue navi.
Prima della squadra di Vinicio, prima di Maradona, c’è stato il Napoli di Pesaola. Una squadra che divertiva il pubblico e metteva allegria. Perché lui era un personaggio positivo, a volte melodrammatico ma era come se recitasse. Ed era soprattutto un grande intenditore di calcio. Fu un boom, il San Paolo era sempre pieno, 70-80 mila spettatori. Il Petisso, che aveva lanciato Juliano e Canè, riuscì a far convivere le due primedonne già sul viale del tramonto. Sivori non sopportava Altafini. Però lui li invitava spesso a casa, partite a carte e cucina napoletana. Dal ’65 al ’68: terzo, quarto e secondo posto in classifica, 124 gol in tre campionati. Alla fine del ’67 Lauro però modificò la maggioranza azionaria e Fiore fu costretto ad andarsene. Il Comandante piazzò suo figlio Gioacchino, personaggio debole, spendaccione e disprezzato dallo stesso padre-padrone che non andò nemmeno ai suoi funerali, alla testa della società. Dopo Altafini e Sivori, arrivarono anche Zoff e Claudio Sala, oltre al povero Paolone Barison. Ma lo scudetto Pesaola lo andò a vincere, qualche anno dopo, a Firenze.