Un racconto inedito
L’uccellaccio di Kafka
«Appena Franz andò via, tra noi si accese una discussione su questa faccenda dell’uccello: “Si sarà inventato tutto, forse per impressionarci”»
Franz Kafka ne parlava qualche volta. Sapevamo che era una sua fantasia o, forse, una fissazione, ma le sue parole erano inquietanti. Diceva di uno strano uccello che si nascondeva nei posti più impensati, in casa e perfino in ufficio e che, all’improvviso, gli compariva davanti. Non parlava, ma si capiva che lo disprezzava e che, o prima o poi, gli avrebbe fatto del male, per esempio, lo avrebbe beccato in bocca mentre dormiva o sugli occhi.
Quella sera eravamo riuniti nella casa di Max, Franz disse che non si sentiva bene e che se ne tornava a casa. Forse quattro passi all’aria aperta gli avrebbero giovato. Nessuno si offrì di accompagnarlo. In realtà tutti sapevamo che Franz andava da quell’attrice del teatro yiddish, quella biondina col volto di una sirenetta e la voce da bambina. Non era lecito sapere se Franz avesse contratto una relazione d’amore o volesse farlo. Certo è che di questa sua frequentazione desiderava non si sapesse, anche perché lei era sposata con un attore grande e grosso, un caratterista notissimo, amato dal pubblico e indispensabile in quell’ambiente.
Appena Franz andò via, tra noi si accese una discussione su questa faccenda dell’uccello. «Certamente il nostro amico si sarà inventato tutto, forse per impressionarci». Questa era la tesi più accreditata, ma qualcuno fece notare che, se non era così, se, cioè, Franz avesse effettivamente quelle terribili allucinazioni, noi tutti non potevamo restare indifferenti e avevamo il dovere di fare qualcosa, perché, se si trattava di allucinazioni, si sarebbe trattato di una malattia grave della mente. Si pensò, allora, di parlarne al dottor Joseff, che era amico di tutti e avrebbe potuto considerare il problema e dare un orientamento, un consiglio tecnico. Benché Joseff era medico chirurgo e non avesse specifiche competenze per le malattie della mente, certo ne sapeva più di tutti noi e, per il momento, era opportuno sentire il suo parere.
Il martedì successivo ci riunimmo ancora a casa di Max. Ormai avevamo preso l’abitudine di vederci tutti i martedì e, a turno, qualcuno leggeva un racconto o una recensione teatrale o un elzeviro, insomma occasioni, stimoli per discutere animatamente e, forse, anche inutilmente, ma di cui avvertivamo il piacere intellettuale e una ragione in più della nostra amicizia.
Quella sera c’era anche qualcuno che aveva portato una favolosa bottiglia di moscato siciliano e certi pasticcini al limone fatti in casa con amore.
Franz prese posto, ci guardò, uno per uno, e sorrise. Erano meravigliosi i suoi rari sorrisi.
«Vi ricordate – disse – di quell’uccellaccio di cui vi parlai? Ma certo che vi ricordate. Lo so di sicuro, perché vi conosco bene e credo che, in mia assenza, abbiate discusso di questo intruso nella mia e nella vostra vita. E sono anche sicuro che abbiate ipotizzato una mia malattia mentale, oppure un guizzo di fantasia per fare impressione e dar corso a un mio vizio narcisistico.
«Ebbene, quell’uccellaccio fa da padrone ed è diventato un racconto. Del resto che differenza c’è tra un uccellaccio reale e un uccellaccio dell’immaginazione, destinato a fare da protagonista in una storiella, se in entrambi i casi ti invadono la mente, se entrambi ti colpiscono col becco nei momenti di abbandono e di stanchezza?
«Il racconto ve lo leggerò il prossimo martedì, perché ci devo tornare, ha bisogno di alcune limature e accorgimenti di scrittura».
Restammo tutti a bocca aperta. Ancora una volta Franz ci faceva capire la natura profonda della sua arte.
Per anni ho riflettuto sulla terribilità dell’immaginazione, che, nell’anima di Franz, compete alla pari con la realtà, fino a prevaricarla talvolta e a dominarla. Quelle parole sono state una dichiarazione coraggiosa e disperata, ma anche, per tutti noi, l’amara didascalia della sua vita di artista.
Il martedì Franz non si fece vivo. La sorella, parlando con Max il giorno dopo, disse che Franz non stava bene e che aveva tossito tutta la notte.