Andrea Carraro
Un saggio sull'identità italiana

Lo scandalo Italia

Fabrizio Ottaviani riparte da Leopardi per analizzare il carattere degli italiani perso nella frattura aperta tra la ricchezza di cultura e la povertà di morale

Fabrizio Ottaviani, per chi non lo conoscesse, è uno scrittore-critico ciociaro (ma ormai di stanza nella capitale da parecchi anni) molto interessante. Uno dei non molti critici militanti in attività (scrive sul Giornale, ma ha anche un sito personale di approfondimento), ha pubblicato per Marsilio un romanzo grottesco e linguisticamente assai raffinato, La gallina. Qualche tempo fa è uscito per l’editore Barney un suo prezioso libriccino, La morale non euclidea degli italiani – Breve saggio sul carattere nazionale sul quale vorrei concentrarmi un momento non solo perché lo merita, ma anche perché mi permette di ragionare su alcune questioni che mi stanno a cuore.

Dunque, quando parliamo di indagine sul carattere degli italiani non si può non partire dal celebre Discorso sopra lo stato presente del costume de gli italiani di Giacomo Leopardi dove il grande poeta-filosofo marchigiano ragionava sullo stato di decadenza della società italiana della sua epoca (l’anno di pubblicazione è il 1824), rispetto ad altre nazioni europee più evolute. Fabrizio Ottaviani parte proprio da lì per cercare di spiegarsi – e spiegarci – perché le cose siano ancora a quel punto, per spiegarsi lo “scandalo” italiano, o se si vuole l’anomalia italiana. Egli ammette di provare segretamente vergogna di essere italiano, paese fra i più ricchi di cultura e di storia e di arte, fra i più evoluti del mondo da un punto di vista del reddito, ma ancora così poco nella morale, nel senso civico, nella qualità della vita. Lo scrittore trae spunto dalla propria esperienza personale quotidiana: da quello che ti punta i piedi sullo schienale della poltroncina al cinema rovinandoti la proiezione a quello che non rispetta la coda alla posta, da quello che per strada ti lampeggia per avvertirti dell’arrivo della polizia, a quelli che “sul marciapiede incedevano verso di me quasi con gli occhi chiusi, il cellulare sull’orecchio e il braccio piegato ad angolo retto, i gomiti alla stessa altezza della mia faccia” ecc. Numerosi sono gli esempi, raccontati anche con ironia e gusto dell’aneddoto, e numerosi sono gli appigli culturali (da Cattaneo ai personaggi manzoniani, dal Parini a Machiavelli, passando per Stendhal, fino ad arrivare, senza mai perdere il filo del discorso, ai romanzieri postmoderni e al Paese senza di Arbasino e a molto altro).

fabrizio ottaviani La morale non euclidea degli italianiÈ un libro, si sarà capito, in cui l’autore macina tanta cultura, tanta conoscenza, ma senza prosopopea da erudito, senza spreco di tecnicismi, con un linguaggio tanto ricco e preciso quanto friendly. Vedetelo come un felice esempio di personal essay, saggio personale. Si tratta di un genere letterario da noi non molto frequentato (anche se a ben vedere alcuni romanzi italiani di oggi sono spesso proprio dei saggi personali mascherati), più comune negli Stati Uniti, che si muove fra diversi generi contigui: il saggio, l’autobiografia, il diario, il reportage, la critica culturale e letteraria, il pamphlet, il frammento narrativo ecc.  C’è chi sostiene che oggi i saggisti italiani scrivano mediamente meglio dei narratori. Io non se se sia vero fino in fondo, ma certo la prosa di Ottaviani (quella saggistica che possiamo apprezzare qui, come quella da romanziere ne La gallina) ci sembra fra le migliori in circolazione. E in questa valutazione rientra certamente la qualità anche comunicativa di questa lingua. In una delle molte articolazioni del suo discorso attorno al nostro carattere nazionale, lo scrittore analizza la situazione letteraria ed editoriale italiana dei nostri anni.

Fabrizio Ottaviani non è uno che le manda a dire, dichiara con chiarezza i propri riferimenti e le proprie gerarchie, che si possono condividere o meno. L’enfasi attorno alla figura di Arbasino, che il critico avrebbe candidato senza esitazioni per il Nobel, per esempio, a noi pare eccessiva. E forse anche la passione smodata per il compianto Malerba: grande scrittore certamente, ma non fino a quel punto. Ma il gusto è perfettamente coerente con un’idea del mondo e della letteratura.  Su una cosa siamo perfettamente d’accordo: sul fatto che in Italia manchi clamorosamente anche nel romanzo – come in qualunque altra disciplina e attività – una solida produzione media (quelli che chiama i Grandi Romanzi Leggibili) che faccia anche da architrave e da pompa a tutta l’industria editoriale. Da noi solo l’eccellenza (purché “stramba”, “respingente”) oppure la mediocrità che quasi sconfina con l’analfabetismo; oppure, partendo dall’analisi del critico Andrea Cortellessa nel suo documentario Senza scrittori: da una parte l’Arcadia, dall’altra il “raggiro semiologico e ideologico – così scrive Ottaviani – dei romanzi di De Luca, Baricco, Mazzantini, un fenomeno degenerativo impressionante che non ha eguale”. Nel mezzo, appunto, il nulla, il vuoto. Nessuna inclinazione, nessun rispetto dunque per l’umile artigianato, per il “lavoro ben fatto” (personaggi, intreccio ecc.), ma piuttosto per qualcosa che sia “bizzarro” e “respingente”. Dirò di più, passando alla filosofia del linguaggio, in Italia quando un critico o un editor intendono dire male di qualche scrittore possono dire “uno scrittore medio”. In America, o in Inghilterra o in altri paesi occidentali, un simile epiteto non avrebbe la stessa connotazione dispregiativa.

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