Da Lou Reed a Pino Daniele
La telepatia musicale
Il festival di Ravello rende omaggio a Guido Harari, uno dei nostri massimi fotografi, quello che meglio di chiunque altro ha spiato i fantasmi del rock per fissarli in un'immagine
«So che le sue saranno immagini musicali, piene di poesia e sentimento…». Lo dice un poeta e un grande musicista, Lou Reed: «sempre felice di farmi fotografare da Guido». Guido è Guido Harari, critico musicale e fotografo diverso da qualunque altro fotografo, musicista per vocazione e non per mestiere. Un artista al pari degli artisti che ha immortalato nei suoi ritratti, provando ad andare oltre l’apparenza delle cose per cogliere la «misteriosa alterità» dei suoi soggetti fermata in un’espressione, un gesto, spiazzante e imprevedibile, che ci raccontano la persona, chi è davvero, al di là della leggenda. Gli scatti di Guido Harari, 35 portrait di grandi dimensioni, sono l’emozionale colonna visiva del Festival di Ravello 2015, personaggi che si sono esibiti o si esibiranno quest’anno sul belvedere di villa Rufolo, altri che sogniamo immersi nell’incantamento di cielo-mare della Costiera amalfitana: una galleria interamente dedicata all’immaginario musicale, assolutamente trasversale, eclettica, disinvoltamente oscillante tra classica, rock, pop, jazz, che ci restituisce – lo sottolinea Stefano Valanzuolo, direttore artistico del festival – la seduzione della musica.
Sonora è il titolo della mostra fotografica – finalmente, dopo anni, il ritorno della fotografia nella città della musica – che ha inaugurato, complice la Wall Of Sound Gallery di Harari, il segmento arti di questa mega kermesse lunga due mesi e mezzo. La ammireremo fino al 30 ottobre nel raccolto ambiente del chiostro inferiore della piccola Alhambra celebrata da Boccaccio; tra le pietre medievali e la follia cromatica dei giardini del mito il labirinto di facce che, ad ogni passo, incrociano, in una luce irreale, i nostri sguardi, ci spiazzano in una esperienza unica, senza più spazio né tempo, anime in dialogo con altre anime, la magia dell’ascolto. «Ognuna di queste immagini ha una storia e ci vorrebbe un libro per raccontarle tutte», dice Harari, classe 1952, adolescente nei primi anni Sessanta con i suoi rituali, le sue bandiere, le sue icone, la sua sana e vibrante collettività che hanno permeato la sua coscienza di adolescente sulla soglia dell’utopia. A Ravello sfogliamo in anteprima queste pagine di incontri ravvicinati tra fotografo e celebrity. Nulla a che vedere con le classiche photo session o le paparazzate. «Ogni foto – spiega Guido Harari è il risultato di un terreno comune, di un’intesa anche fuggevole, di una complicità, di un desiderio condiviso di sparigliare le carte, sull’onda di una genuina curiosità nei confronti dell’altro. Così è stato con Lou Reed e Laurie Anderson, due artisti eternamente catapultati nel futuro in ogni aspetto della loro arte e della loro vita».
Un cane sciolto nell’industria della musica, sperimentazioni sul campo, interviste accompagnate da fotografie a riviste specializzate. E quel valore aggiunto, quella differenza essenziale con i suoi colleghi che lo rendono altro dall’etichetta di fotografo musicale: l’empatia o meglio, per dirla con Guido, «la telepatia, il rapporto amoroso con i musicisti», la sua mente sgombra da stereotipi su questa o quella star, per trovare la chiave di nuove e diverse interpretazioni. È il caso di Ute Lemper, lo shooting per l’edizione italiana di Max del 1994 concentrato sul linguaggio del corpo con meravigliose pose sexy e sensuali, le lunghe dita ad avvolgere il capo come una corona di fiori. «Di rado impartisco direttive, semmai imbastisco un clima, lancio piccole provocazioni, cerco di capire fino a che punto il soggetto è disponibile a giocare con la propria immagine», confida Harari. Ma alla fine quello che conta è il caso, la spontaneità, il momento irripetibile da cogliere in un millisecondo.
Ecco il compositore jazz Hannibal Peterson, sdraiato per terra mentre suona, la figlia che gioca con lui, curiosa delle melodie che scaturiscono dalla tromba, che si accosta allo strumento, lo tocca, lo porta alla bocca, la campana sulle labbra del padre, respiri di note come un bacio. Il fermo-immagine è la silhoutte di una danza tra la bimba e l’adulto rinato a nuova vita dopo essere stato guarito da uno sciamano in Africa. Ecco il ribelle Tom Waits a Parigi, insofferente alla posa, «nato per creare problemi», si nega all’obiettivo. Il cantautore ruba il fondale, se ne fa mantello, fugge correndo. Sfida il fotografo che, però, raccoglie il guanto e lo congela con quel sorriso beffardo, inno alla libertà. Leonard Cohen è ritratto in un corridoio di albergo che pare il Louvre, colpito da una simil-sindrome di Stendhal; Fabrizio De André (lunga la collaborazione con l’amico Guido), «magnifico perdente» buttato contro un termosifone in un angolo del palasport di Bologna, David Crosby risorto dall’inferno con una nuova luce nel cuore e negli occhi, Frank Zappa nei panni di compositore di musiche serie, Vinicio Capossela vestito da cercatore d’oro a mollo nel fiume. E c’è Ennio Morricone, completamente nascosto da una porta settecentesca, carta di identità gli occhiali tartarugati e uno spartito; gli fa da contraltare, in un ironico bianco e nero, Michael Nyman, incappucciato da una partitura musicale.
Nella sequenza del teatrino di foto appese a fili invisibili che sembrano materializzarsi dal nulla, troviamo un autoritario Philip Glass, uno psichedelico Brian Eno che scherza con la sua ombra, la sirena Kate Bush che sembra nuotare in un mare iridescente, Peter Gabriel con una maschera da Arancia meccanica pronto all’agguato, Joni Mitchell che evoca la sua icona di rockstar, Patti Smith, ieratica sacerdotessa a confronto con l’angelo della pace Noa e il profeta dalla lunga barba bianca Robert Wyatt. E, ancora, un tenebroso Riccardo Muti sullo scenario del Teatro degli Arcimboldi di Milano, l’ugola di Pavarotti in un urlo che riprende, stessa intensità, quello di Gaber, Jan Garbarek, bellissimo, ispirato, la fotografia che sembra sgretolarsi come un affresco emerso dalla polvere.
Altri volti, altre suggestioni: Bob Marley, Bob Dylan, Paolo Conte, il genio creativo che brilla negli occhi. Un tenerissimo omaggio: Pino Daniele. Il Mascalzone latino pizzica la chitarra, felice, nel silenzio degli ulivi. L’illusione diventa realtà. Chiudiamo gli occhi e ritroviamo il nostro Pino, la sua musicalità, la sua parola che il vento della morte non ha disperso. «Imagine» cantava John Lennon. «Immagina» ci invita Guido Harari.