Un'opera prima da non perdere
La morte e il barocco
“Grazie per gli spiriti”, il libro d'esordio di Giorgia Mastropasqua, sperimenta scritture diverse (dalla poesia al racconto) ricamando sui fantasmi dell'esistenza
Grazie per gli spiriti (Il Menocchio, 2015, pp. 100, 8 euro) è il libro d’esordio di Giorgia Mastropasqua ed è un testo di ricerca narrativa sui fantasmi dell’esistenza. Per prima cosa, la scrittura di Mastropasqua è elegante, colta, matura. In un certo senso è un miracolo. Un miracolo rispetto alla costruzione dei racconti-vissuto, come avvenisse per caso la narrazione, al centro di un discorso che è soprattutto filosofico, antropologico e saggistico, ed è il vero cuore dei suoi scritti ma lei lo custodisce gelosamente lasciandocene scorgere soltanto la superficie. Questo discorso silenzioso ha a che fare con l’idea della morte e con il tentativo di addomesticarla. Per questo il titolo: “Grazie per gli spiriti”, o forse spettri, o forse ancora fantasmi, nel modo in cui lo intendeva Lacan.
Tra le suggestioni evocate, indubbiamente Milan Kundera, ma anche Sorrentino. Una poetica barocca ma mai grottesca, dai tratti ricercati ma non esattamente manieristi. Non è solo una raccolta di racconti, potrebbero essere due romanzi, difatti è composta di due parti, nella prima sono presenti racconti in cui, pur cambiando il nome dei protagonisti, si riconoscono simili atmosfere, avventure minimali ed esistenzialiste, talune visibilmente ambientate nelle terre salentine, altre a Roma, altre ancora all’Aquila, tutte accomunate da fragili epifanie, di personaggi per lo più solitari e alla scoperta di un mondo realistico quanto misterico e onirico. Talvolta sono monologhi, come il primo della raccolta, Stagioni, dedicato all’estate, un vero e proprio microcosmo di creature del mondo vegetale e animale che accompagnano la protagonista nel rito di passaggio dall’infanzia all’adolescenza.
Talaltra si tratta di incontri tra solitudini, scambi di dialoghi e sguardi sul mondo, contaminazioni di universi possibili, come nel caso di Primo Piano, in cui due esistenze, due solitudini appunto, si incontrano in una casualità quantistica, scambiandosi, l’una con l’altra, piani di realtà, che altrimenti non si sarebbero mai potuti trovare. Il Cane invece è un racconto, dal taglio feroce ma sussurrato, sugli abbandoni, mentre Lepidotteri è una grande metafora della crescita, del cambiamento, una piccola morte anche questa. Ognuno di questi racconti lo è: una piccola morte, ma senza i toni accesi ed esasperati della tragedia, al contrario ognuna di queste piccole morti è descritta con una delicatezza sottilmente ironica e rassegnata, senza tuttavia essere disperata.
Come fil rouge tra la prima e la seconda parte, la poesia Staffetta, quasi un riassunto lirico di tutte le parti precedenti che compongono l’insieme di queste esistenze. Descrizione esatta e pur mai completamente fattuale degli ambienti, delle strade, dei luoghi, che sono proprio quelli eppure sono anche altro, sono materia onirica riorganizzata secondo linee di senso non razionali. La seconda parte, invece, Incontattati, è un racconto lungo, quasi un romanzo, sulla scissione di personalità, ma ben lontano dalle atmosfere violente e noir con cui siamo soliti leggere di simili alterazioni del sé, mantiene sempre la linea kunderiana, e direi anche sartriana, delle epifanie silenziose, dove le azioni e gli accadimenti sono minimi, tutto cambia all’interno del vissuto, nella percezione del mondo, nella consapevolezza delle perdite e dei cambiamenti, esperiti, questi, ancora, con una vicinanza millimetrica al concetto di morte. È un miracolo questa forma di scrittura poiché potrebbe tranquillamente non essere narrativa, potrebbe trattarsi di una forma saggistica elaborata e immersa nella quotidianità alterata della fiction. Ciò che la Mastropasqua riesce a fare è portare a compimento una commistione di generi che si traduce in tratti leggeri eppure mai scevri da una ricerca ossessiva della forma, in ultimo, della bellezza.
Esperienze tra le più sconvolgenti, come disastri atmosferici, crisi economica, luoghi di lavoro freddi e indifferenti, dipartite, perdita di affetti importanti, abbandoni, adii, sono qui trattati con la leggerezza di apparizioni semplici, con il distacco e la precisione filosofica della ricerca del significato, o più precisamente, del segno. È una scrittura di segni e simboli, quella di Giorgia, che prende piede poco per volta nella mente e nel corpo del lettore. I tempi dilatati, le atmosfere eterne, l’angoscia del tempo che scorre o non scorre affatto, attraversano le voci soavi di personaggi che, gettati nel reale, cercano di comprendersi con la maturità dei senescenti e la curiosità degli infanti, pur essendo proprio nel mezzo tra queste due condizioni. «Una morte dalle molteplici forme, l’accidente respiratorio, una irresistibile vecchiezza, non faceva differenza, ma l’avvertimento estemporaneo della morte veniva con la fine dell’ossigeno. Allora, quando l’aria era finita proprio tutta, con un movimento repentino della gamba mi spingevo sul pelo dell’acqua, fino a sentire tutta la luce sul volto, col cloro nel naso e la cuffietta perduta chissà dove».