Riflessioni dai “Quaderni in ottavo”
Kafka Graffiti
Viaggio a tappe forzate nei diari e nelle equazioni - normali o antinomiche - che si snodano nella testa vertiginosa dello scrittore praghese. Che parla di poesia come preghiera, di Cristo abisso di luce, momento in cui precipitare...
«Cristo, Momento». Cosa avrà voluto dire Kafka in quel particolare passo, in quel preciso e non replicabile punto, in quel solco continuo e perfetto degli Otto quaderni in ottavo, esattamente al quarto quaderno? Si riferiva agli opuscoli di Kierkegaard intitolati Der Augenblick (Il momento)? C’è dell’altro? E cosa? Una verità celata? È il momento di Cristo? O Cristo certifica la presenza di un breve momento avvenuto e trapassato, qualcosa di diafano e alienabile? Si tratta di un istante della vita? O è il lampo eterno in cui Cristo si disvela? Non lo sapremo. Sono due parole buttate lì, due sistemi di pensiero messi assieme, imperscrutabili. Si misurano senza sbranarsi. Due lastre, due lenti.
Kafka è ebreo askenazita, figlio di un padre autoritario e nipote di un’epoca ostile. Praga è il corollario dello sgomento: sfrenata, apicale, gemebonda. Qualcosa d’importante doveva accadere da un momento all’altro… In un luogo dei Diari il metamorfo dichiara: «L’eterna tensione. Passeggiata ad Auschwitz». Siamo nel 1916, i drammi della sua vita sono usuali. Ma qualcosa arriva, si è detto. Cammina dunque Kafka. Non sa che di lì a ventisette anni la sua sorella prediletta, Ottla, morirà nel campo di sterminio. E lui cammina ancora adesso ad Auschwitz, in eterna tensione del lasciar andare. Nei colloqui con il giovane Janouch, figlio di un collega alle Assicurazioni Generali, Kafka tuona: «Definitivo è soltanto il dolore». Questa è forse la traversia più grande di un sentore che si possiede da tempo. Quando si dice di sottecchi: sapevo che sarebbe accaduto. E da un’altra parte: «Tu puoi tenerti lontano dai dolori del mondo, sei libero di farlo e risponde alla tua natura, ma forse proprio questa tua astensione è l’unico dolore che potresti evitare». Qui entra in gioco l’accettazione del proprio destino, la quale non deve esser mai cieca, ma sempre diritta e consapevole.
Nel terzo quaderno osserva: «18 ottobre 1917. Paura della notte. Paura della non-notte». La paura della non-notte è l’aurora, il principio d’iniziare, il nuovo mattino che segue dopo il dolore. Ciò che sorge e si dimostra incipitario può essere cagione di arrendevolezza. Duplice negazione che afferma. Con un pizzico di delirio tautologico, Heidegger la chiamerebbe «l’inizialità dell’inizio iniziale». Poi: «25 febbraio. Chiarità mattutina». Kafka appare come un pellegrino in un viaggio a metà tra il terrestre e il celeste. La chiarità diviene il bianco e l’azzurro del cielo. Uno scenario albeggiante si apre ai suoi occhi; o meglio: i suoi occhi si aprono a uno scenario albeggiante. È un periodo di nuova nascita, a seguito del marchio immutabile impresso dalla sofferenza. Nella stessa pagina: «Tutti noi combattiamo una lotta». Poche righe più in là: «Tu ti lamenti del silenzio, dell’inanità del silenzio, della muraglia del bene». Momento, silenzio, bene: affrontano una lotta contro qualcosa di definitivo.
«“La musica crea stimoli nuovi, più sottili, più complicati e perciò più pericolosi” disse una volta Kafka. “La poesia invece intende di chiarire il garbuglio degli stimoli, di sollevarli alla portata della coscienza, di purificarli e renderli umani. La musica è una moltiplicazione della vita sensibile. La poesia invece tende a domarla e a portarla più in alto”» racconta Janouch. In alto verso dove? Verso il momento? Il tempo è il luogo. Il luogo è l’alto: l’alto è il momento. Il momento è eterno. Cristo è il momento. Le equazioni – normali o antinomiche – si snodano nella testa vertiginosa dello scrittore praghese. «Con una luce fortissima si può dissolvere il mondo. Dinanzi a occhi deboli esso diviene consistente, dinanzi a occhi ancor più deboli acquista solidi pugni, dinanzi a occhi debolissimi si fa pudibondo e annienta chi osa guardarlo». La poetica della luce si affaccia verso l’alto, nella regione di confluenza tra ciò che è del tutto e ciò che ancora dev’essere.
Nelle Considerazioni sul peccato asserisce: «La nostra arte è un essere abbagliati dalla verità. Di vero non c’è altro che la luce proiettata sul viso, che arretra in una smorfia di sbigottimento». A margine dei colloqui con Janouch: «Il peccato è la radice di ogni malattia. Qui sta il motivo dell’essere mortali». Cosa ci salva dal peccato? «Un angelo vestito di panni d’un viola azzurro, cinto di cordoni d’oro, con grandi ali bianche dal fulgore di seta, la spada librata orizzontalmente nella mano sollevata. L’emozione è grande: un angelo, dunque, pensai. Tutto il giorno vola verso di me e io scettico come sono non lo sapevo. Adesso mi parlerà». Chi è l’angelo? È un angelo necessario, un angelo della realtà? Un angelo che disintegra il peccato perché possiede la cintura della purezza. La freccia dell’umiltà. «L’umiltà dona a ciascuno, anche al disperato solitario, uno strettissimo contatto con gli altri uomini, e lo dà subito, a patto, s’intende, che l’umiltà sia assoluta e continua. Essa può farlo perché è la vera lingua della preghiera, insieme adorazione e fortissimo legame. I nostri rapporti col prossimo sono quelli della preghiera, i nostri rapporti con noi stessi quelli dell’azione; alla preghiera attingiamo le energie necessarie per l’azione».
Kafka ha un viso scarruffato: lo si avvicinerebbe a un cenobita del Verbo, palombaro della Dizione. Possiede altresì un’asciuttezza naturale che trasforma ogni definizione in anatema, assioma, cristallo. «Io sono fine o principio» dice di sé nei Diari. «“Questa è letteratura” osservò Kafka con un sorriso. “Fuga dalla realtà”. “La poesia, dunque, sarebbe menzogna?” “No. Poesia è condensazione, è un’essenza. La letteratura invece è dissolvimento, un alimento che facilita la vita incosciente, un narcotico”. “E la poesia?” “Poesia è esattamente il contrario. La poesia risveglia”. “Dunque la poesia tende verso la religione”. “Non direi. Ma certo verso la preghiera”». La poesia è umiltà, preghiera, purezza contro il peccato. La poesia è forse un momento. «“E Cristo?” Kafka chinò la fronte. “Cristo è un abisso di luce. Bisogna chiudere gli occhi per non precipitare”». Quel momento è rischiarato dal bagliore agitato della luce. Il momento di precipitare.