Elisabetta Torselli
Musica oltre le sbarre

Il mio canto libero

Incontro con Massimo Altomare che da anni dirige l'Orkestra Ristretta, un gruppo di detenuti e detenute del carcere di Sollicciano: «La nostra hit si intitola Sbarre, è un pezzo in italiano con ritornelli in arabo, un mix musicalmente ideale»

Ci sono concerti e spettacoli in cui il pubblico deve sottoporsi ad una piccola trafila, un po’ seccante ma assolutamente non aggirabile: invio di copia del documento d’identità, iscrizione in una lista d’attesa a discrezione delle autorità che fanno le loro verifiche, ingresso fino a esaurimento posti (pochi)… Perché il luogo e gli interpreti del concerto di cui parliamo sono un po’ speciali: il carcere fiorentino di Sollicciano, i suoi detenuti e detenute. Eppure il 19 maggio per GalàGalera erano stati in tanti a farsi questa trafila, e in tanti a restare fuori per mancanza assoluta di spazio. Ma non è il primo anno che succede e c’è da credere che l’anno prossimo gli esclusi ci riproveranno.

GalàGalera era una prima parte con Massimo Altomare e il duo di musica e videoarte Pastis (Marco e Saverio Lanza), la seconda parte era tutta dell’Orkestra Ristretta, così si chiama il gruppo dei detenuti e detenute guidato da Altomare, raffinato cantautore sulla breccia fin dagli anni Settanta con il duo Loy & Altomare e da solo, fino ai progetti, alle collaborazioni – come quella con Stefano Bollani – e alle uscite discografiche (il CD Outing) di anni più recenti. Massimo Altomare ha iniziato questo percorso dentro Sollicciano oramai molto tempo fa, e ha visto le evoluzioni e le involuzioni della situazione carceraria italiana e di tutto ciò che in carcere si faceva e si fa per assicurare la promozione della persona. Ossia di ciò che dovrebbe essere il fondamento della detenzione come rieducazione. E certamente il teatro e la musica sono strumenti privilegiati per intervenire dove c’è bisogno di tirar fuori qualcosa.

Del teatro si sa di più. Per spettatori e addetti ai lavori, per fare un esempio, è oramai un mito il pluripremiato MaratSade di Peter Weiss messo in scena da Armando Punzo con la Compagnia della Fortezza a Volterra,  punta di diamante, sul piano della visibilità mediatica, di un numero rilevante di attività teatrali, da quella storica e pluridecennale di  Gianfranco Pedullà nelle carceri toscane a quella di Fabio Cavalli a Rebibbia, quest’ultima divulgata dal film dei fratelli Taviani Cesare deve morire, Orso d’oro al festival di Berlino 2012. La musica, come ci racconta Altomare, ha problemi specifici e modalità di lavoro diverse. Ma per tutti la situazione è sempre più critica sul piano delle risorse, che naturalmente sono sempre meno.

Massimo Altomare3Come e quando è cominciato il tuo lavoro a Sollicciano? 

La storia è lunga, è partita un po’ casualmente a metà degli anni Novanta. Da Sollicciano mi proposero uno stage con le detenute sui testi delle canzoni, in quel periodo io lavoravo con Stefano Bollani su un progetto che spulciava la canzone italiana dagli anni Trenta ai Cinquanta, e ne venne fuori un qualcosa che poteva dare anche alle detenute straniere qualche dritta sulla storia e sulla società italiana. Però questo aspetto, diciamo così, solo culturale, di lavoro sui testi, non mi bastava, volevo che anche loro fossero coinvolti, e tutto è cominciato così.

L’attività principale è imperniata sul canto.

Perché in carcere di gente che sa suonare davvero bene ce n’è poca, invece di gente che sa cantare ne trovi. La differenza con le altre espressioni c’è eccome: un attore può essere in un certo senso creato dal regista, ma se uno non becca una nota e toppa sistematicamente il tempo non è che ci puoi fare un granché. E anche una volta formato il gruppo ci vuole comunque molto lavoro, tra l’altro i componenti cambiano sempre, qualcuno per sua fortuna torna in libertà, e magari era uno dei miei punti di forza. Quest’anno ho dentro un rapper piuttosto bravo.

Come funziona?

Faccio le audizioni e poi cominciamo a lavorare insieme sui testi e sulle esecuzioni, con un appuntamento settimanale che diventa bisettimanale da gennaio a maggio, con prove separate di uomini e donne. Ora ho otto donne e dodici uomini. La prima cosa che ho dovuto cercare e trovare è un’altra dimensione rispetto a quella professionale, una dimensione in cui far suonare la loro energia, la loro fierezza, e non il loro essere inutili e falliti.

Com’è il repertorio?

Ho messo un solo bando, il neomelodico napoletano che è il genere amato dalla malavita organizzata, quello degli omaggi e delle dediche a chi sta dentro. Ovviamente va molto bene il rap, abbiamo il nostro Rap da Galera, un testo scritto da una ragazza, facciamo qualcosa di mio, poi canzoni tradizionali a seconda delle nazionalità dei detenuti, ad esempio canzoni albanesi, e delle cover, però personalizzate, in qualche modo adattate alla situazione, a ciò che c’è da esprimere. Io amo a leggerezza e con il gruppo delle donne facciamo, per esempio, Sono bugiarda e E datemi un martello. La nostra hit si intitola Sbarre, è un pezzo in italiano con ritornelli in arabo, un  mix musicalmente ideale.

Anche per superare i confini fra un gruppo e l’altro…

Certo, la tendenza in carcere è che gli albanesi stanno con gli albanesi e così via.

C’è differenza a lavorare con gli uomini e con le donne?

Per me di sicuro, io sono un maschio adoratore del genere femminile e con le donne sto meglio, rido di più, le prendo anche un po’ in giro, invece per quanto riguarda le tipiche gerarchie maschili direi che in carcere siamo ancora agli anni Cinquanta, ma in alcuni casi bisogna saper far funzionare anche questo. Ho la sensazione che nel 90% dei casi il motivo per cui sono lì sia la mancanza di strumenti e esperienze culturali. Ecco che cos’è la musica: una pratica ma anche un’esperienza culturale. Va bene il corso per pizzaiolo e di taglio e cucito, per carità divina, la musica è un lusso ed è così anche in carcere, ma rispetto ad una vita chiusa e deprivata come mi sembra che sia la loro è importante dare un momento propriamente culturale in cui condividi qualcosa, ti confronti, magari litighi.

Per loro è una fonte di orgoglio, di benessere?

Credo di sì, anche se ammetto di essere un po’ fumantino come maestro.

Quanto conta per te la qualità artistica?

Moltissimo, anche perché confesso che lavorare con Bollani mi ha viziato sul piano della qualità. Per tanti degli operatori che lavorano in carcere il percorso è tutto, per me invece conta anche il risultato, il mio motivo d’orgoglio è andare in scena in un certo modo, con uno spettacolo interessante, con gente che ci sta. Voglio che siamo i meglio, ma è  un lavoro di lacrime e sangue. C’è da dire che oggi il carcere è “inseguito” da artisti che cercano più che altro un palcoscenico ben visibile.

massimo altomare2Eh, lo sappiamo bene. Chi ti ha aiutato e ti aiuta dentro il carcere?

Un’insegnante che ora continua come volontaria, Cristina Galli, un altro insegnante che suona il basso, Armando Michelotti, molti degli agenti.

Però per loro queste aperture saranno un po’ una seccatura.

Di sicuro, ma alla lunga sono loro i primi a tenerci, al successo delle manifestazioni.

Il concerto dell’Orkestra Ristretta a Sollicciano dell’anno scorso, Leitmotiv, e quello di quest’anno, GalàGalera,  sono stati inseriti nelle manifestazioni di Tempo Reale, il centro di ricerca e produzione di musica elettroacustica fondato a Firenze da Luciano Berio e diretto oggi da Francesco Giomi. Leitmotiv era una delle “passeggiate sonore” di Tempo Reale con cui i cittadini sono invitati a prendere coscienza di com’è e come suona un certo ambiente fiorentino, GalàGalera ha visto Tempo Reale curare la regìa del suono. Com’è nata questa collaborazione e cosa vedi nel futuro al riguardo?

Quelli di Tempo Reale li ho conosciuti negli anni Novanta a Novaradio dove Giomi faceva una trasmissione, “Onda Quadra”, poi è venuto Leitmotiv, poi per quel che riguarda me c’è stato al Tempo Reale Festival lo spettacolo Welcome dedicato alle migrazioni, in cui facevo la voce recitante, e spero che faremo insieme qualcosa di ancora più grosso.

A risorse economiche come state con l’Orkestra Ristretta?

Male, questa è un’attività che ha i suoi costi, la sua manutenzione, le sue spese, pensiamo agli impianti di amplificazione. Quando ho iniziato quest’avventura la situazione era molto migliore, io ero pagato dal ministero, i soldi c’erano. Ma devo ringraziare la Regione Toscana che oramai finanzia l’80% della mia attività a Sollicciano.

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