«Quando le chitarre facevano l'amore»
Elogio del caos
Lorenzo Mazzoni ha scritto un romanzo pop e colto allo stesso tempo, che insegue l'illusione rivoluzionaria degli anni Settanta e testimonia la vittoria dell'individualismo
Quando le chitarre facevano l’amore (Spartaco, 2015, pp. 348, euro 12) di Lorenzo Mazzoni parla di nazisti in fuga e cacciatori di nazisti, ‘68, America, beat generation, droghe e musica psichedelica, allucinazioni, spionaggio, poetica della violenza e soprattutto paradosso e ironia. Possiamo definirlo romanzo pop o, meglio ancora, rock. Corale indubbiamente, quasi un insieme di racconti, ciascuno centrato su un personaggio. La vicenda che fa da trait d’union è la caccia a MartinBornmann, criminale nazista che ha radicalmente cambiato vita, reinventandosi come manager della band The Love’s White Rabbits. In un luogo immaginario dell’America, chiamato Anita, in riferimento invece a una vera città però italiana dove effettivamente morì Anita Garibaldi, s’incrociano le vicende più bizzarre dei personaggi di questo libro: due agenti del Mossad, di cui uno con tendenze gender, un vecchio israeliano sionista, che poi tanto vecchio non è, più che altro emaciato dall’esistenza, un israeliano non sionista invece, e uno scheletro parlante che oltre un secolo prima si era arruolato tra i garibaldini per seguire l’amata Anita.
C’è il ‘68 dunque in questo libro e non il ‘68 italiano ma quello mondiale, dagli Usa all’America Latina, passando per il Vietnam e altri luoghi d’Oriente come Singapore. E c’è anche in pieno l’ideologia americana, incarnata da Lolicia Smith, donna dall’aspetto sgradevole tanto quanto il suo alito, che lavora per la CIA ed è una sorta di profeta del caos e nello stesso tempo amante del rock e della sregolatezza dei sensi, il che a pensarci bene non è neanche poi tanto un controsenso.
I richiami alla filmografia d’epoca non mancano, da Full Metal Jacket a Easy Rider a Zabriskie Point, ma anche un po’ al contemporaneo Tarantino di Bastardi senza gloria, così come alla letteratura, in particolare a quella latino-americana di Paco Ignacio Taibo II, tanto amato dall’autore da fargli scegliere Paco Ignacio come nome di uno dei cacciatori di Bornmann.
C’è in questo libro indubbiamente una comicità pop e postmoderna ma anche una critica politica al doppio volto dell’America e alla sua inestirpabile poetica della violenza, teoria del caos, infiltrazione onnipresente di servizi segreti, legge del più forte. C’è poi però anche una sommessa nostalgia per anni che hanno visto un picco di creatività e comunitarismo, battuti una volta per tutte dall’individualismo imperante nell’oggi e da chitarre che non fanno più l’amore poiché basta poco per emozionare il pubblico in tempi in cui si può essere ovunque con un click. Mentre forse l’autenticità degli anni ‘70, seppure nel loro delirio lisergico, era anche quella di prendere la vita con filosofia, saper ascoltare musica non facile, non di leggera fruizione, ed emozionarsi per progetti comuni, ideali di cui ora non abbiamo che blandi simulacri.
Si nota indubbiamente in questo libro, che miscela sapientemente generi tra loro diversi (il noir, il romanzo d’avventura, la spy story), la cura e l’attenzione meticolosa per il particolare, in primo luogo per quel che riguarda la ricerca storica che indubbiamente richiede una ricostruzione, seppur modificata, di personaggi realmente esistiti. Di facile fruizione, come lo stesso autore ama definire le sue opere: narrativa popolare alta, ma certamente non di altrettanta facile creazione, Quando le chitarre facevano l’amore è un libro insieme colto e pulp, visionario e ironico, a tratti esilarante, un on the road psichedelico da leggere tutto d’un fiato.
«Erano arrivati a bordo della Corvette scassata. Davanti all’auditorium stazionava il furgone dei Love’s White Rabbits. Sul marciapiede qualche poliziotto, giovani messicani che brandivano cartelli con le scritte: “Più libri – Più istruzione”; “Vogliamo imparare”; “Un tacos per la storia”. “È là, capo” disse Kimbo, indicando Luigi Portaleone che parlottava con due donne nel parcheggio della scuola, sull’altro lato della strada.
Il vecchio spense la macchina e osservò attentamente. Portaleone, il famoso scovanazisti italiano, era in compagnia di una donna bionda, dal busto imponente e le gambe secche, e di una ragazza molto bella, con i capelli lisci e neri, che indossava un vestitino leggero azzurro e scarpe di vernice coi tacchi alti.
«“Dev’essere quella la ragazza che si faceva Nathan…”.
«Nessuno lo ascoltava. Robert sogghignava guardando la Colt .45 che aveva tra le mani. Kimbo controllava i movimenti dei poliziotti davanti all’entrata dell’auditorium. Simba stringeva i pugni mormorando dal dolore».