Riflessioni in coda a due mostre romane
Ectoplasmi d’arte
Sempre più spesso l'"evento” sovrasta il valore (e il senso) di mostre e iniziative artistiche. Come il "festival” di Nasan Tur a Villa Torlonia o il site specific di Maurizio Nannucci al Maxxi
Che cosa spinge l’arte di oggi – non tutta certo ma una sua quota considerevole – verso il baratro senza ritorno dell’inconsistenza? Accusare Duchamp e l’impulso all’autodistruzione che ha messo in circolo è spiegazione che non basta più, perché anche le ondate che ne sono seguite e le avanguardie anni ’60 e ’70 che le hanno cavalcate nella speranza di cambiare il mondo sono ormai storie da museo. E allora cos’altro? È una domanda che sempre più spesso torna ad assillarmi quando l’onere di una recensione o la mia vocazione di testimone mi chiamano ad un giudizio, a dar conto comunque di ciò che sto vedendo. E inesorabilmente vendendo ad altri.
Ma la goccia che ha fatto traboccare il vaso è una curiosa manifestazione in corso fino al 2 agosto al Casino nobile di villa Torlonia a Roma. Il cartellone del festival, ideato dal centro ricerche musicali, in cui è inserito porterebbe a classificarla come un concerto un po’ anomalo: l’esecuzione di un brano musicale eseguita dal vivo da otto giovani strumentisti del Conservatorio di Santa Cecilia per il vernissage e poi diffusa in registrazione da altoparlanti attivati nelle sale del museo, durante le ore di visita. Ma il biglietto da visita dell’autore, Nasan Tur, tedesco, 41 anni, un ricco curriculum di mostre internazionali, è quello di un artista in carriera, specializzato in performances e istallazioni visive; il curatore che la presenta, Pierpaolo Pancotto, un critico d’arte di solida reputazione, le imprimono un carattere prevalente di opera d’arte, che come tale dunque, aldilà del suo valore musicale, va valutata e gustata. E come tale è stata concepita.
Il copione si può riassumere così. Due anni fa, quando soggiornava a Roma come borsista dell’Accademia tedesca, Nasan Tur ha visitato la dimora principale di villa Torlonia ed è rimasto folgorato dal fascino delle sue sale ricche di cimeli classici e affreschi primo Ottocento trasformate dagli anni ’80 in museo, ma soprattutto dalle impronte e dagli echi che evocano la storia del suo inquilino più famoso, Benito Mussolini, che nel ventennio del Regime la scelse come residenza ufficiale. Da tempo, Nasan Tur accarezzava l’idea di un progetto itinerante sulle Voci del Potere da ambientare in palazzi in qualche modo legati ai grandi personaggi della Storia e della Politica. Perché non partire proprio da villa Torlonia e da Mussolini? Così si è messo ad ascoltare e visionare film e registrazioni dei discorsi del Duce, non con l’intento di riproporli ma di sublimarne le impressioni in una partitura musicale. Una composizione in otto brani costruita con l’aiuto di musicisti professionisti da utilizzare come colonna sonora sgranata lungo il percorso di visita che include oltre al museo anche il bunker sotterraneo realizzato come rifugio negli anni della guerra. Le note e le melodie di otto strumenti come ingredienti di una sorta di seduta spiritica per ridar voce e presenza ad un fantasma. È l’arte ridotta ad ectoplasma. Funzioni o meno la forza evocatrice del concerto, importa relativamente. L’importante a dar corpo all’evento; è la forza di richiamo del luogo e del personaggio scelto. Vera o solo presunta, fa comunque notizia. Come non accorgersi che è un espediente, un rimbalzo da manuale di pubblicità questo appoggiarsi sulla citazione, sull’effetto alone della fama altrui? Come non accorgersi che di slittamento in slittamento, di rimbalzo in rimbalzo, di sconfinamento in sconfinamento l’arte evapora per mancanza d’identità. Precipita in una terra di nessuno e di troppi dove la profondità, che dovrebbe essere l’unità di misura del fare arte , precipita nella superficie, regno della pura creatività, terra di mezzo strappata alla decorazione, al design commerciale, alla pubblicità appunto? Succede perché, difficile precisare come e quando, si è deciso, accettando la contaminazione come deriva inesorabile della contemporaneità, di eliminare il metro della differenza tra diversi linguaggi. Uno vale l’altro.
L’esempio che ispira questa riflessione è in sé poca cosa. Ma è il segnale di una tendenza, di una moda che invece dilaga. Come l’etichetta abusata che la connota: site specific. Dovrebbe indicare il carattere eccezionale di opere create per l’occasione, concepite per dialogare o confliggere con lo spazio che le ospita. Ma ormai è spesso solo un messaggio, un plusvalore mediatico che punta sul transfert automatico di richiami e significati dal luogo, un museo, una piazza, un palazzo storico, all’opera cui questo spazio fa da cornice.
Perché no, se l’intenzione dichiarata poi trova riscontro? Non viene data per buona sulla carta. Come è capitato al Maxxi dove la mostra dedicata a Maurizio Nannucci, 76 anni, toscano, artista concettuale di lungo corso, inalberava come manifesto site specific una scritta al neon «More than meets the eye» (Più degli incontri conta lo sguardo). Peccato che quel gioco di lettere illuminate, che secondo i curatori esaltava la prevalenza del colpo d’occhio come bussola tra le sghembe e asimmetriche architetture del museo firmate Zaha Hadid, era in realtà una frase coniata oltre trent’anni prima ed esposta in vari altri luoghi del mondo. Una falla che non incide più di tanto sul valore e sull’impatto di una retrospettiva ben impaginata e stimolante, ma poteva essere evitata se si fosse operato con più rigore ,imponendo a un talentuoso fabbricante di parole come Nannucci di trovar altre parole, altre fasi per dire un luogo, un tempo comunque diverso da altri già attraversati.