Francesco Arturo Saponaro
Ultima replica all’Opera di Roma

Due russi in gioco

È dal 1956 che nella Capitale non si rappresentava “La Dama di picche” di Čajkovskij ispirata al racconto di Puskin. Dirige con mano sicura James Conlon alla guida di un cast vocale formidabile

Quasi sessant’anni di assenza. Strano. L’unico allestimento precedente de La dama di picche di Pëtr Il’ič Čajkovskij, all’Opera di Roma, è infatti datato addirittura al febbraio 1956. E fu presentato come “novità per Roma”, tradotto in italiano come da noi usava, allora e per molti anni ancora, per le opere in lingua straniera. Eppure, dal suo trionfale debutto al Teatro Mariinskij di Pietroburgo nel dicembre 1890, quest’opera è periodicamente eseguita ovunque, anche grazie al riuscito connubio fra libretto e partitura, di eccelsa fattura entrambi, connubio che garantisce un’infallibile tenuta drammaturgica. Dopo aver annunciato a suo tempo la regia di Peter Stein, il Teatro dell’Opera ha invece mutato indirizzo, assumendo una coproduzione di qualche anno fa, messa in scena dal regista Richard Jones, su scene e costumi di John McFarlane, e oggi ripresa da Benjamin Davis. Coproduzione che, nel tempo, ha consorziato Opera Nazionale Gallese, Opera Norvegese, Comunale di Bologna e Compagnia Canadese di Opera. L’allestimento odierno ha affidato concertazione e direzione d’orchestra all’esperta, raffinata bacchetta dello statunitense James Conlon, a capo di una pregevole compagnia di canto, di nazionalità russa in gran parte.

dama di picche 2Il soggetto è tratto dall’omonimo racconto di Puškin, apparso nel 1834, e ridotto a libretto operistico dal fratello di Čajkovskij, Modest. Febbrilmente ispirato dalla nera, demoniaca vicenda, il compositore completa la partitura in brevissimo tempo, nell’arco dei primi mesi del 1890. La trama, tipicamente romantica, si dipana in una cornice sociale elevata, minata però da vizio e degrado etico, che proietta tutti i personaggi su uno sfondo attraversato da illusioni, nostalgie e deliri, ma senza speranza e senza riscatto. German, povero ma ambizioso ufficiale che trascorre lunghe notti nelle sale da gioco senza peraltro impegnarvisi, è posseduto dalla disperata passione per una fanciulla, Liza, che in realtà non conosce neanche di nome, e che ha visto soltanto da lontano. Per di più, egli apprende costernato che ella è fidanzata, e promessa sposa, del principe Eleckij, rivale del tutto fuori portata per lui. I due giovani si incontrano soltanto di vista più volte in pubblico, pur senza conoscersi, e anche Liza rimane colpita e attratta dal giovane. Ella però è accompagnata dalla nonna, un’aristocratica ricca e anziana, sulla quale corre voce che possegga il segreto di tre carte vincenti al gioco. Da lì in poi, la vicenda ruota sull’ossessione di German di strappare alla Contessa il suo segreto, al punto da anteporre tale brama all’amore della fanciulla, che, profondamente delusa, si toglierà la vita. La tragica conclusione vede il giovane dapprima affermarsi al gioco, usando la rivelazione della Contessa morta nel frattempo, e poi fallire la vincita con suicidio finale.

La regia di Richard Jones focalizza la progressiva degenerazione della mente e dell’animo di German, e vi costruisce attorno un movimento, nelle presenze isolate come in quelle collettive, che crea una soffocante, crescente atmosfera di disperante inquietudine. Impressionante, ad esempio, il ricorrente, frenetico attraversamento da un lato all’altro del palcoscenico da parte del coro. Così come ben risolti appaiono il quadro della camera da letto di Liza, in compagnia delle amiche, o la potente scena della pastorale, nel secondo atto, con l’originale soluzione prescelta per le danze, e con inserimento di burattini. Non da meno appare l’incubo di German, nel suo letto sospeso in verticale sul palcoscenico, con il fantasma della Contessa che gli rivela le tre carte, raccomandandogli però di sposare la nipote Liza, invano. Nell’insieme, il progetto visivo non soltanto è pienamente comprensibile, ma soprattutto è integrato in pieno alla musica, tanto da catturare l’attenzione senza un solo attimo di caduta, nonostante la lunghezza dello spettacolo, quattro ore intervalli compresi.

Dama di picche 3Molto pregevole l’attento lavoro di concertazione e direzione di James Conlon, che ha condotto l’orchestra a una dimensione espressiva sempre appropriata, tanto nei momenti lirici e delicati, quanto in quelli più incisivi, corruschi, acerbi. Il che si deve all’intelligenza interpretativa di questo direttore, che nel dipanare una partitura tanto complessa afferma la propria personalità dialettica, e sensibile a illuminarne attentamente i chiaroscuri. Basti ricordare, ad esempio, il bellissimo atto secondo con i suoi ricalchi settecenteschi, e con il gioco elegante degli strumentini, flauto oboe clarinetto fagotto. Conlon guida con mano sicura un cast vocale che nel suo insieme appare formidabile, specie sul fronte delle voci maschili. Generosi, ricchi i mezzi del protagonista German, a cui dà voce il tenore russo Maksim Aksenov. Egli ha da tempo in repertorio tale ruolo improbo, che rende sì con dovizia, ma nel quale dovrebbe moderare accenti e stile che talvolta lo inducono a eccessi quasi veristi. Straordinario, anche come attore, il baritono islandese Tómas Tómasson nella parte di Tomskij, e accanto a lui più che buone le altre seconde parti. Meritati applausi riscuote Vitalij Bilyy come principe Eleckij. Meno espressiva appare, al confronto, la Liza di Oksana Dyka, corretta vocalmente ma di contenuta passione interpretativa, e ben degna, anche se non memorabile, la Contessa di Elena Zaremba. Nel complesso, nonostante la sala non sia affollata, è uno spettacolo di alta qualità. Ultima replica oggi, martedì 30 giugno, ore 20.

Facebooktwitterlinkedin