Fa male lo sport
Tutti i nomi di Messi
Pulce, el Mesias, Messidona, il Maestro, Irmao, Leproso ma anche nanerottolo: storia di Leo Messi, il più grande fenomeno calcistico del momento, attraverso i suoi soprannomi
Pare che nessuno lo chiamasse la Pulce, quand’era un bambino. I compagni di squadra preferivano rivolgersi a lui dicendogli Maestro, un po’ troppo sontuoso per un adolescente che toccava un pallone. Altri lo indicavano come el Piqui, cioè Nanerottolo. Nanerottolo lo chiamò molti anni dopo anche Zlatan Ibrahimovic. E non certo alla maniera affettuosa dei ragazzi di Rosario. «Bisogna eliminare il nanerottolo» pare che sbraitasse negli spogliatoi del Barcellona, lo svedese che Pep Guardiola volle nello squadrone blaugrana pensando ad una coesistenza tecnica ed esistenziale tra i due. Ma non fu così. Alla fine vinse lui, ancora una volta: Lionel (o Leonel) Andrés Messi Cuccittini, ormai diventato la Pulga, la Pulce. Il più grande, dicono, ogni volta che fa una delle sue meraviglie, un gol, un assist, un dribbling come un grande artista.
Roberto Saviano in un articolo su Repubblica (del febbraio 2009) paragonò le giocate di Messi «alle suonate di Arturo Benedetti Michelangeli, ai visi di Raffaello, alla tromba di Chet Baker alle formule matematiche della teoria dei giochi di John Nash, a tutto ciò che smette di essere suono, materia, colore, e diventa qualcosa che appartiene a ogni elemento, e alla vita stessa. Senza più separazione, distanza. È lì e non si può vivere senza…». Aveva impiegato mesi, lo scrittore di Gomorra, a preparare quell’incontro: al quotidiano, venne un periodo in cui le segretarie ebbero un gran daffare per combinare la cosa. Messi però non gli disse più di una ventina di parole. Come ha sempre fatto, l’argentino, con tutti. Taciturno, riservato, triste. Ma Saviano, entusiasta o facendo finta di esserlo, gli dedicò un epilogo del pezzo da grande scrittore: «La storia di Lionel Messi è come la leggenda del calabrone. Si dice che il calabrone non potrebbe volare perché il peso del suo corpo è sproporzionato alla portanza delle sue ali. Ma il calabrone non lo sa e vola. Messi con quel suo corpicino, con quei suoi piedi piccoli, quelle gambette, il piccolo busto, tutti i suoi problemi di crescita, non potrebbe giocare nel calcio moderno tutto muscoli, massa e potenza. Solo che Messi non lo sa. Ed è per questo che è il più grande di tutti».
Abejorro, cioè calabrone, non risulta tra i soprannomi di Leo Messi. Lo stesso Saviano elenca altri due apodos, come gli argentini chiamano i soprannomi: el Mesias e Messidona, una sintesi, quest’ultimo, che riporta inevitabilmente ad uno dei Padreterni del calcio, argentino pure lui: Diego Armando Maradona. I paragoni tra i due si sprecarono quando la Pulce si inventò un gol simile a quello che el Pibe segnò all’Inghilterra ai Mondiali in Messico, facendosi mezzo campo con il pallone ai piedi, saltando via via gli avversari e realizzando uno dei gol che hanno segnato la storia del calcio. Ventuno anni dopo quella prodezza, nel 2007, il Barcellona di Frank Rijkaard giocava contro il Getafe in semifinale della Copa del Rey, Leo Messi prese il pallone vicino alla linea di metà campo, tutto spostato sulla destra, in una sessantina di metri dribblò con finte, tocchetti di palla e altro ancora cinque poveri disgraziati che tentarono di fermarlo e scavalcò il portiere con un colpo di fioretto morbido, quasi beffardo.
Un simil-pallonetto come ha fatto nei giorni scorsi in Champions con Neuer segnando il secondo gol al Bayern Monaco. Tutti dissero che Leo, che adora Maradona, era il suo unico erede. L’ex vicerè di Napoli non gradì molto perché commentò così, tanto per ristabilire le gerarchie: «Potrei dire che Messi è un fenomeno, e non conosce limiti, ma bisogna sottolineare che la mia rete, oltre a essere più bella, la segnai contro l’Inghilterra nei quarti di finale di un Mondiale. Messi segnò contro il Getafe… è stato un gol incredibile, ma non esageriamo…».
Allora, vediamo: il Maestro, el Piqui, la Pulga, Messia e Messidona. Ma anche Irmao, cioè fratellino per i brasiliani del Barcellona ai tempi di Ronaldinho che lo prese per mano come si fa con un fratello più piccolo. O Leproso, che non è un nomignolo ma una definizione. Lui stesso ha sempre detto di essere un argentino e un leproso, vale a dire un giocatore del NOB, il Newell’s Old Boys, una delle due squadre di Rosario, la città dove Messi è nato nell’87. Il NOB è il club a cui è rimasto sentimentalmente legato dopo aver dato lì i primi calci. Leprosos perché negli anni Venti il Newell’s organizzò una partita per raccogliere fondi a favore di un ospedale che curava i lebbrosi. L’altra squadra è il Rosario Central e giocatori e tifosi di quest’ultimo club vengono chiamati invece Canallas, e nonc’è bisogno di tradurre. Fuori dall’elenco non un soprannome ma l’insulto con cui sembra che ami chiamarlo Cristiano Ronaldo: Motherfucker, che sarebbe come dire figlio di buona donna. Il portoghese ha detto che è una frottola, ha smentito ed ha messo in moto gli avvocati.
C’è da ricordare che ogni calciatore argentino, come molti sudamericani, ha un nomignolo. Di Stefano era la Saeta Rubia, Sivori era il Cabezon, lui, Maschio e Angelillo facevano gli Angeli dalla faccia sporca, Iguain è el Pipita, Tevez è l’Apache, Lavezzi è el Pocho. Messi, anche in questa speciale classifica in cui il soprannome la Pulce è nettamente in testa, è però unico: ha un record di nomignoli. Esonda come un corso d’acqua nella piena globale del calcio. Forse è la voglia di chi racconta le sue gesta di appiccicargli aggettivi, iperboli, accostamenti letterari. Forse è il tifo che crea le leggende e certe storie.
La storia della «piccola pulce», come lo chiamò Francis Cagigao, un talent scout dell’Arsenal in Spagna, quando lo vide giocare quindicenne nelle giovanili del Barcellona e tentò di portarlo in Inghilterra, è stata raccontata con efficacia da Guillem Balague, scrittore e giornalista spagnolo che vive in Inghilterra, in un libro titolato semplicemente Messi nella edizione originale, uscita alla vigilia del Mondiale brasiliano, e rititolato Pulce nella edizione italiana (Edizione Piemme). Dal suo libro si apprende che, ad esempio, a chiamare Leo la Pulce fu il fratello Rodrigo, il primogenito dei Messi (Jorge e Celia Cuccittini hanno avuto quattro figli: Rodrigo, Matìas, Leo e Maria Sol). Anche se la famiglia sostiene che la firma del nomignolo spetti ad un cronista messicano. Cintia Arellano, grande amica dai banchi di scuola del nostro che non ha mai amato i libri (una volta Leo disse che l’unico libro che aveva letto era la Bibbia, probabilmente mentiva), rivela invece che un ragazzino gli gridò, un giorno: «Vieni qui, nanerottolo». E il soprannome gli rimase appiccicato addosso. Tutte le testimonianze da Rosario concordano nel dire che quello scricciolo d’uomo amava solo giocare a calcio. Messi aveva già allora una devozione verso il pallone, quella cosa che l’ha fatto superare ogni difficoltà: la malattia, l’esilio dal suo paese a 13 anni , il distacco dalla madre cui è legatissimo perché ad un certo punto la famiglia dovette dividersi, Jorge restò con il figlio a Barcellona, la madre tornò a Rosario perché Maria Sol, l’ultima, non sopportava di vivere lontano da casa. Anche i suoi pianti dopo una sconfitta, un rigore sbagliato (ma anche dopo una vittoria in cui lui non è stato protagonista: è successo dopo la conquista di una Champions League) testimoniano di un carattere fragile ma anche di una dedizione assoluta al lavoro. Lontano dai riflettori della mondanità e timido al punto di andarsi a cercare un angolo negli spogliatoi, lontano dai compagni.
A nove anni i genitori si accorsero che Leo era troppo piccolo. Fu il dottor Diego Schwarzstein, un endocrinologo, a fare la diagnosi: «Scoprimmo che gli mancava un ormone… era un ragazzo riservato e introverso. Ben presto capii che gli interessava una cosa sola: voleva diventare calciatore… dovrai farti le iniezioni da solo… ecco, questa è una penna, solo che al posto dell’inchiostro ha l’ormone della crescita, e al posto della punta un ago…». Gerardo Grignigni, ex giocatore del NOB, ha descritto a Balague quello che faceva il giovane Messi: «Si faceva da solo le iniezioni come se fosse una cosa normale… arrivava con un piccolo contenitore refrigerato, con dentro delle fiale di liquido e siringhe simili a matite con un ago sottile sulla punta: infilava la boccetta nell’apposito foro, poi affondava l’ago nella gamba. Settimana dopo settimana, ogni giorno, prima di andare a letto, sette giorni su una gamba e sette sull’altra…». L’avrebbe continuato a fare anche nei primi anni in Catalogna.
Quella cura era costosissima, la famiglia chiese aiuto al club che fece tante promesse ma senza concretizzarle. Anche per questo motivo, in un Paese colpito agli inizi degli anni Duemila da una grande crisi, i Messi decisero di andarsene in Spagna. La prima volta che Leo Messi e suo padre salirono a Buenos Aires su un aereo diretto a Barcellona, era il 17 settembre del 2000, domenica. Pochi giorni prima un giornale di Rosario aveva scritto: «Lionel Messi è un giocatore della decima divisione e nella squadra ha il ruolo di enganche (giocatore della trequarti). Il ragazzo non è solo una delle migliori promesse della scuola calcio Leprosa ma ha anche uno straordinario futuro davanti a sé, perché, malgrado un’altezza non certo impressionante, è in grado di superare uno, due avversari, dribblare e segnare, e poi è capace di divertirsi con il pallone». Non fu una traversata tranquilla. L’aereo capitò in mezzo a forti turbolenze. Il ragazzo non mangiò nulla, aveva nausea. Voleva vomitare come gli capiterà di fare in seguito anche in mezzo al campo. A quel tempo Leo misurava un metro e 48 centimetri. Quando arrivò al Mini Estadi del Barça per il provino, tutti commentarono: «È proprio basso». Se lo ricordano bene, in molti, il primo giorno di esami di quel piccolo argentino. Cesc Fabregas, ad esempio, ospite come tanti altri ragazzi della Masìa del Barcellona, la cantera catalana: «Aveva i capelli lunghi e parlava sottovoce, molto argentino come modo di fare, lo si sentiva appena. A dire il vero, praticamente non parlava. Era tutta testa. Pensavamo che fosse proprio tempo sprecato… appena toccò la prima palla, capimmo che era diverso dai ragazzi che venivano di solito a fare un provino… la prima volta mi fece impazzire e mi lasciò impalato sul campo…mi fece sembrare molto stupido… la prima volta non te l’aspetti e arrivi un po’ troppo rilassato. Ma lui continuava a farlo, ancora e ancora». Charly Rexach, ex giocatore blaugrana, assistente di Johan Cruyff negli anni Novanta, e allenatore della prima squadra Barça di lì a poco, era allora il manager della società. Quando lo vide palleggiare e giocare, esclamò: «Cazzo, dobbiamo ingaggiarlo. Subito». Ma passarono i mesi, ad un certo punto lo stesso Rexach fu costretto a firmare su un tovagliolo di carta di un bar, dove si era ritrovato con l’agente che aveva portato il ragazzo dell’Argentina, l’impegno a ingaggiare Messi. E così fu nel marzo 2001. Un contratto di cento milioni di pesetas per un ragazzo di 14 anni. Poi la cifra venne ritoccata al ribasso, dopo le polemiche in seno allo stesso club spagnolo.
Questo fu il principio. Nessuno chiamò più Leo Messi, detto la Pulce, il Nanerottolo. Per chi proprio lo volesse sapere, Leo Messi misura oggi 1 metro e 69 centimetri di altezza e pesa 69 chili.