Every beat of my heart, la poesia
Il Paradiso in terra
Nei versi di John Keats si compie il magico e doloroso incontro tra sonno e poesia. Consacrandolo per noi lettori, il poeta inglese ha reso terreno il sonno eterno, quello abitato dagli angeli e da cori celesti…
Si potrebbe scrivere un libro sul rapporto tra sonno e poesia. Binomio che appare spesso nell’opera di non pochi poeti. I due termini designano realtà opposte e complementari. Il sonno è l’interruzione delle attività fisiche e cerebrali, una sospensione del tempo, una condizione di passività quasi assoluta. Anche i sogni che lo frequentano non sono controllabili dal dormiente. La poesia al contrario è la quintessenza della concentrazione mentale e, per chi la conosce e pratica profondamente, non per il letterato o il poeta occasionale (cioè il non poeta), è anche la quintessenza dell’attività umana. Senza supporti materici, con il solo pensiero, l’immaginazione, la visione, e successivamente nella storia dell’uomo, con la parola scritta, la traccia nera sul bianco del vuoto, nasce vita, nasce azione, prendono forma visioni e storie. Non solo: la poesia, intendo la vera poesia, ripristina altrove il movimento e il respiro essenziali dell’essere: la lotta buio-luce, caos-armonia, la pulsazione del cuore, il ritmo delle maree e del battito di ciglia: quella musica e quel tempo che nel Novecento Miles Davis e i Pink Floyd hanno mostrato di conoscere naturalmente e assolutamente, essendo la loro carne nutrita di quella sostanza sonora, pitagorica, metrica.
La poesia è la quintessenza dell’espressione dell’uomo, un concentrato tremendo di vitalità, quando il sonno all’opposto è l’assenza, o sospensione, di tutti quegli elementi che concorrono a generare quell’esplosivo concentrato di stupori e visioni. Ma se non esistesse una violenta interruzione del flusso fenomenico del tempo, se non scendesse sul poeta un prodigioso e non necessariamente allegro incanto, la visione poetica sarebbe preclusa, il passaggio risulterebbe occluso, la rivelazione offuscata dal battere dei secondi.
Questa ode Al sonno di John Keats, uno dei tre magnifici ragazzi della poesia romantica inglese, con Percy B. Shelley e Lord George Gordon Byron, oltre che una delle massime opere poetiche mai scritte, rappresenta un magico quanto doloroso incontro tra sonno e poesia. Il sonno è invocato come irruzione di un regno incantato, con un’esaltazione del suo ruolo per comprendere la quale non possiamo prescindere dalla condizione del poeta, giovanissimo, malato di tisi, sconquassato da sbocchi di sangue, ansioso di addormentarsi nell’essenza oppiacea, trovare la quiete. Ma i grandi poeti, e John Keats (1795 Londra – 1921 Roma) è un grandissimo, non soggiacciono al dolore, lo trasformano: così il poeta che precocemente morì a Roma, in Piazza di Spagna, dove era giunto sperando di guarire con il clima mite i polmoni malati, tramuta il sonno in una manifestazione terrena del Paradiso. Non la sospensione del dolore, ma la discesa dell’incanto celeste. Non sto dicendo che rimosse l’esperienza quotidiana della sofferenza e s’illuse che il sonno fosse il Paradiso. Sto affermando che la sofferenza gli dilatò occhi, orecchie e anima al sonno, e, facendo strumento e bacchetta magica del suo dolore, seppe vedere nella discesa del sonno l’avvento del Paradiso, e comunicarlo a noi, rendendo il sonno a noi divino e sacro per sempre. Sì, il sonno eterno, ma pieno di angeli e cori celesti, come altri promisero, Keats lo fece terreno, in questi versi. Per noi, lettori immedesimati, suoi simili, fratelli.
Al Sonno
Tu che imbalsami la quiete della notte,
chiudendo con le tue dita premurose e buone
i nostri occhi lieti del buio, e li proteggi dalla luce,
avvolti all’ombra del divino oblio:
o dolce sonno, chiudi, se ti aggrada,
mentre ti canto, i miei occhi vogliosi,
o attendi l’amen prima che il papavero
diffonda le sue grazie nel mio letto.
Poi salvami o splenderà il giorno passato
sul mio guanciale generando pene,
salvami dalla coscienza curiosa, che scava
come una talpa e ammucchia contro il buio,
e gira bene la chiave nella toppa oliata,
sigilla il muto scrigno dell’Anima mia.
John Keats
(Traduzione di Roberto Mussapi)