Un'avventura a puntate/1
Profumo d’Africa
Un uomo anziano, ben vestito, viene trovato cadavere su una panchina: Due spari nella notte. Indagini a tappeto. A condurle è il commissario Nanni Ardigò. Ecco la prima parte di un giallo inedito
Questa è la prima puntata di un racconto giallo che ha come protagonista il commissario Nanni Ardigò, che, dopo essere stato abbandonato dalla moglie vive solo. Il crimine avviene in una larga piazza, che tutti chiamano il «piazzone», di una cittadina marina (mai nominata). Un uomo anziano, ben vestito, viene trovato cadavere su una panchina. Due spari nella notte. Indagini a tappeto. Si interroga la sua ex badante, una giovane somala molto dolce, ambienti della malavita, ma non solo. Non si esclude che sia stata una bravata. Ma rimane un interrogativo: perché quell’uomo, ex professore di lettere, si trovava in quella panchina nel mezzo della notte? Ardigò dimostra tutta la sua dose di intuizione. E una grande umanità. Nelle prossime settimane, ogni venerdì, pubblicheremo le puntate successive.
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Nel momento in cui il commissario Nanni Ardigò smaniava nel letto ormai troppo grande per lui dopo l’uscita dalla scena coniugale della moglie Laura, due colpi di pistola venivano sparati contro un uomo anziano seduto su una panchina, cappotto e cappello color marrone scuro, riducendolo a una specie di manichino appoggiato a una parete in un deposito teatrale. Ma Ardigò non lo sapeva ancora. Pensò di avere la febbre, se la misurò: un’inezia, aveva indicato il termometro. Ora aveva caldo, ora gli pareva di avvertire i brividi. Era novembre, ma la casa non era affatto fredda. Provò a leggere uno dei libri che teneva per terra, accanto a comodino. Dopo un paio di capoversi si disse che non gliene fregava niente di quel protagonista, tale Rudinov, ribelle e perditempo.
Andò in cucina a bere due bicchieri d’acqua. Ebbe la tentazione di farsi un caffè, ma si astenne: sarebbe stato come concludere la notte, che era ancora fonda. E poi desiderava solo lenzuola e piumino. E lì tornò, mettendosi su un fianco e aggiungendo un altro cuscino. La mano allungata di fianco era una vecchia abitudine coniugale. Ma il corpo tiepido di Laura, la moglie partita per l’America (definitivamente?), si stava a poco a poco trasformandosi in un’ombra. Anzi, si diceva sarcasticamente Ardigò mentre si faceva la barba, era ormai qualcosa che somigliava alla traccia di una vita vissuta secoli fa, un grumo di polvere che fuggiva dalle spatole dell’aspirapolvere per danzare da un angolo all’altro della casa. Poi l’inevitabile frase che rivolgeva all’immagine riflessa nello specchio: »È molto, molto probabile che tu sia un idiota».
Si assopì fino a entrare in un quasi piacevole dormiveglia. Sapeva che di lì a poco avrebbe sentito il camion dei rifiuti, quello con il gancio che afferrava e svuotava nel lurido ventre della balena meccanica i quattro o cinque cassonetti (non li aveva mai contati o se ne scordava). Lo squillo del cellulare precedette l’arrivo del camion della spazzatura. Era il suo vice Riccardo Coppa. Scena del tutto uguale a quella che talvolta vedeva in televisione: finzione e realtà si davano il cambio come due sentinelle davanti a una caserma. Talvolta aveva la sensazione di vivere in un set. Nanni, afferrando il rettangolino petulante e vibrante, pensò che le sue smanie notturne avevano trovato la loro più congrua soluzione.
«Che c’è, Riccardo?»
«Mi scusi se l’ho svegliata…»
«Al contrario. Hai fatto bene. Notte difficile. Dimmi dove sei e che è successo?»
Il vice commissario Coppa aspettava sempre qualche minuto, anche cinque o sei, prima di chiamare il suo superiore. Esitava, soprattutto la mattina presto. Conosceva i «tempi lunghi» del suo superiore.
«Ecco… lei sa dov’è quello che tutti chiamano il piazzone, vero?»
«Eccome: ci giocavo a calcio da ragazzo, quando non c’erano le bancarelle e la gente andava in quella specie di hangar a comprare frutta, verdura e… sai che mi ricordo ancora adesso l’odore del pesce, figurati… mi dava la nausea».
«È stato trovato un uomo di circa settant’anni, forse più, ammazzato da un paio di proiettili. Era seduto su una panchina, non lontano dalla farmacia Pittone».
«Ucciso vicino a una farmacia… be’, potrebbe far ridere. Ma non lo fa… senti, Ricky: mi hai detto che aveva circa settant’anni, segno che non hai trovato i documenti in qualche tasca della vittima. Giusto?».
«Esatto»
«E chi l’ha trovato?»
«Uno spazzino municipale. Sa, arrivano qui alle prima luci dell’alba e puliscono il piazzone. Che dopo le due del pomeriggio è pieno di robaccia».
«L’hai trattenuto, immagino…».
«Certo commissario. Ora sono le sei e qualcosa, troppo presto per bussare alle porte . E poi in quale casa? Sto aspettando l’apertura del bar… ah, sì, il bar Margherita… questione di poco, m’hanno detto».
«Tu stai lì con il netturbino. Magari fai domande, o falle fare da chi è con te, agli altri spazzini. Io arrivo, il tempo di farmi la barba».
Il radersi per Nanni Ardigò era essenziale anche in situazioni di emergenza. L’avere le guance lisce era l’ irrinunciabile demarcazione tra notte e giorno. Se non l’avesse fatto, avrebbe avuto il fastidio che avverte di chi scende per strada in pantofole.
Arrivò, dopo una mezz’ora, nel cosiddetto piazzone. Accanto al suo vice c’era Adriano Curzi, il netturbino che, dopo la scoperta del cadavere, aveva avvisato la polizia. Era alto e ossuto, la faccia sofferente e malinconica, gli occhi buoni, paziente e disponibile.
«Ecco il signor Curzi, è quello che…» disse Coppa.
Ardigò si scusò per essere costretto a ripetere ciò che aveva già riferito all’ispettore. L’uomo, un po’ allampanato, si appoggiava alla lunga scopa dalle setole rigide. Con quell’attrezzo lavorava dall’alba fino alle due e passa.
«Signor commissario, per abitudine ognuno di noi comincia a spazzare da un certo punto della piazza. E per abitudine io comincio da qui. Ecco perché l’ho visto subito. Da dietro. Aveva il corpo inclinato e poi mi avrebbe comunque incuriosito un uomo seduto lì a quell’ora…»
«Non ha toccato niente, vero?»
«No, niente. Aveva il cappotto e la giacca sbottonati. Ho visto la macchia di sangue, gli ho tastato il polso anche se era evidente che…»
«Hanno aperto il bar, capo» li interruppe Coppa «io andrei a chiedere… chissà».
«Vai, vai» rispose Ardigò. Il quale poi riprese ad ascoltare il racconto del netturbino.
«Signor Curzi, il mio collega m’ha detto che la vittima non ha documenti… lei l’ha mai visto prima ?».
«Assolutamente no ! Poi, francamente, m’avrebbe fatto impressione frugare nelle tasche di un cadavere. Oltretutto non mi sembrava giusto, questo è compito vostro. Ho chiesto ai miei colleghi se l’avessero mai incontrato».
«Mai, mai? Nemmeno al bar?».
«Nemmeno lì. Eh sì che certe volte mi assento dalla piazza per due minuti e vado a prendere un caffè. Magari il proprietario del «Margherita» lo conosce. Sempre che abiti da queste parti…».
Osservazione intelligente, pensò il commissario. Ma c’era un però: che motivo c’era di scaricarlo qui, come se fosse stato un pupazzo da esibire? A meno che, se fosse stato proprio così, si doveva capire il significato della presunta messinscena. Un avvertimento? Un segnale? Mah. Pareva comunque un’ipotesi assurda, a prima vista.
«Signor commissario» disse Curzi «se non ha più bisogno di me, io…».
«Per carità, vada. Però mi scriva qui, nel mio taccuino nome indirizzo e recapito telefonico… no, non si spaventi, è la prassi. Se abbiamo bisogno di lei in Questura la chiamiamo. Per ora la ringrazio».
Nel frattempo il corpo dello sconosciuto era stato coperto con della plastica nera. Anche perché cominciavano ad arrivare curiosi. Il medico legale, il sempre eccitato dottor Rovesti, solito a ingarbugliarsi sulle parole, sarebbe stato lì a minuti. Ma fu preceduto dall’ispettore affiancato da un uomo molto robusto e con le guance rubizze. Era quasi pelato, grembiule bianco ancora annodato sotto una giacca a vento azzurra. Il proprietario del caffè Margherita, ovviamente.
Gli fu fatto vedere l’anziano senza vita e lui esclamò immediatamente: «Ma non è possibile… oddio!».
«Quindi lo conosceva» dedusse Ardigò ad alta voce.
«E come no, poveretto. Veniva ogni mattina nel mio locale dopo aver comprato due giornali. Si sedeva un tavolino, in disparte. Era un abitudinario: prima il caffè, a volte con una brioche, poi un succo di frutta. Leggeva tutto il tempo, il professore».
«Ah, un insegnante in pensione… e lei conosce il nome?».
«Professor Rosso…il nome di battesimo, no, quello no. Era gentile, un vero signore. Nell’ultimo periodo mi sembrava scuro in viso…un po’ abbacchiato. Di solito ci scambiavamo qualche parola. Di recente entrava, mi faceva solo un cenno e si sedeva. Non so, mi pareva come invecchiato. E anche distratto».
«Lei magari sa dove abitava?» intervenne l’ispettore.
«E come no! Proprio qui dietro… vede quella casa? Numero diciotto. Sa, da questo lato ci sono palazzi in ordine, li hanno ristrutturati anni fa. Questa è la parte più bella della piazza. Dall’altra parte manco hanno cominciato a pulire le facciate».
Ardigò gli chiese come mai conoscesse la sua abitazione, e magari anche il piano».
«Se mi chiede se sia stato a casa sua le rispondo di no. Lo so per via di Amina».
«E chi è amina? Sua moglie?».
«Macchè, era vedovo da parecchio. Amina era la badante. Una somala o un eritrea, non so. Bella ragazza. Giovane. Credo che se ne sia andata…mah, qualche mese fa».
«Il cognome?».
«Ah no, ora mi chiede troppo. Ma è facile per voi saperlo» squadrando sia Ardigò che Coppa «Prima dormiva al centro San’Anna, tenuto dalle suore. È lì che, almeno all’inizio, dormono i profughi, i clandestini… insomma gli extracomunitari… ce ne sono sempre di più, ma voi lo sapete meglio di me, vero? I più fortunati trovano un’occupazione, una qualsiasi. Anche i furti, non so se mi capisce… Le donne di solito vanno a servizio. Molte si sistemano come badanti, come ho detto prima. Amina mi sembrava proprio a posto, seria, allegra. E parlava sempre molto bene del professore. Gli si era affezionata… nel senso buono, eh!».
«Non lo metto in dubbio» commentò il commissario, che poi ringraziò il proprietario del caffè:»Lei mi ha fornito informazioni essenziali. E l’altro assentì, orgoglioso. Lanciò un’occhiata pietosa al telone nero che copriva il cadavere e tornò al lavoro, con passo lentissimo, come uno che rimugina e mette insieme fotogrammi di ricordi.
«Be’, commissario, mi pare che ora ci sano due cose da fare…».
Coppa aveva l’abitudine di fissare le tappe dell’inchiesta come le avesse già scritte nel suo quadernetto sgualcito.
«Non dirmele, Riccardo, penso di averle indovinate» sorrise Ardigò, mentre un furgone bianco inghiottiva il corpo della vittima per portarlo all’obitorio. Ci avrebbe pensato il medico legale a trovare, magari, un’anomalia che servisse da inizio. Quello che lo rendeva dubbioso lo appassionava. Detective mancato. Preziosissimo in molte circostanze, come Ardigò sapeva bene. Sul piazzone era tornata la normalità: i netturbini spazzavano e qualcuno aveva aperto i cancelli del mercato rionale.
«Il diciotto, dunque» disse Ardigò guardando la facciata della casa dietro la panchina dell’omicidio «Mi sa che dobbiamo fare tutte le scale visto che quello del «Margherita» non ci ha potuto dire a che piano abitava quel disgraziato».
«Ma, commissario, se viveva solo, non troveremo nessuno a casa sua… e non abbiamo le chiavi…».
«Porca miseria!» esclamò il commissario « Riccardo, hai mica frugato nelle tasche del cappotto?».
L’ispettore assunse l’espressione del cane in colpa, con le orecchie basse. Ardigò allargò le braccia. Quello era uno dei suoi modi per rimproverare qualcuno senza lasciarsi andare a una sfuriata:» Una soluzione forse c’è. Prima di salire le scale e chiedere ai vicini del professor Rosso, telefona a quelli dell’ambulanza, cerca il medico legale…insomma, datti da fare e rimedia al tuo errore. Fai svelto. Io intanto vado all’Istituto Sant’Anna a cercare questa badante Amina. Telefonami appena hai le chiavi.
Nessuno degli uomini agli ordini di Ardigò ormai si meravigliava: il commissario, magari nel mezzo di un’indagine che richiedeva tempi veloci, si concedeva talvolta una mezz’ora senza avvertire anima viva. O camminava o prendeva un caffè o un aperitivo, seduto davanti a un tavolino come uno che non sa come ammazzare il tempo. E così infatti fece. Si guardò intorno e scelse il bar «Margherita». Quando il proprietario lo vide entrare, lo guardò stupito. Vicinatosi al bancone Ardigò gli disse:»No, non creda, non ho più domande da farle. È solo che vorrei un caffè..mi posso sedere là?» e indicò un tavolinetto quasi in penombra. «Come no, si accomodi…pensi che il povero professore si metteva proprio lì».
Fu più forte di lui. Ardigò a un certo punto si alzò- forse anche perché non aveva alcun giornale da sfogliare- e si avvicinò al banco. Al titolare del bar chiese se ricordasse per caso se il professor Rosso avesse dei parenti. «Francamente non me ne ha mai parlato, nemmeno di sfuggita. So solo che era vedovo». Ardigò pagò la consumazione non prima di porgli un’altra domanda: «Mi scusi, lei poco fa mi ha detto che l’insegnante le era parso, nelle ultime settimane, un po’ giù, più silenzioso del solito…come se avesse una preoccupazione…». «Sì, è vero, ma forse era solo una mia impressione». «Ultimissima cosa: lei conosce il medico dove Rosso abitualmente andava». Ci fu un altro «no».
1. Continua