Chaplin a teatro: incontro con Brian Latini
Piccoli Monelli crescono
Autore insieme a Lorenzo Cognatti della messa in scena del capolavoro di Charlot, l’attore racconta l’evoluzione artistica dei due piccoli protagonisti che si sono alternati nel ruolo. Una bella storia di formazione…
Per Brian Latini, attore della Compagnia del Jobel Teatro – che non solo crea, produce e mette in scena spettacoli sotto la supervisione del direttore artistico Lorenzo Cognatti, ma che è anche una scuola di formazione per svariate professionalità del palcoscenico, dall’attore al musicista allo scenografo, al mimo, al danzatore, al cantante – la recita del 17 maggio al Teatro Vittoria di Roma sarà una data spartiacque. Ha chiuso le repliche de Il Monello, che si sono spalmate su due stagioni del Jobel. Uno spettacolo su Chaplin e da Chaplin, approvato dalla famiglia del regista inglese e che ha vinto la rassegna “Salviamo i talenti – Premio Attilio Corsini 2014”. Assembla la vita di Chaplin, soprattutto la difficile gestazione de Il Monello, capolavoro del muto uscito nel 1921, e la vicenda del film, con al centro il vagabondo Charlot e il trovatello che egli adotta e cresce arrangiandosi e insieme trovando nell’affetto del bambino una ragione in più per vivere alla giornata ma senza disperarsi. Latini ha interpretato il ruolo di Charlot, mentre i monelli sono stati due, alternandosi nelle repliche: Gabriele Davoli e Sara Aiello. Oggi hanno sette anni, quando hanno cominciato a preparare lo spettacolo cinque. Hanno funzionato sulla scena con grazia e ironia spontanee, ma anche con sincronismo rigoroso nelle azioni mimiche e nelle interazioni con gli altri interpreti, Roberto Fazioli nel ruolo triplo di poliziotto/dottore/bullo, e Francesca di Franco, la ragazza madre che abbandona il piccino in un angolo della via e che poi, trovate condizioni più agiate, sempre sulla strada lo riconosce e se lo riprende insieme con il vagabondo che lo ha allevato.
Brian Latini, perché è una data significativa nel suo calendario professionale ed esistenziale la replica di domenica scorsa al Teatro Vittoria?
«Perché credo sia l’ultima de Il Monello con Gabriele Davoli e Sara Aiello. Sono cresciuti professionalmente. Ma anche di statura e di carattere e non reggono più il ruolo che il copione, e prim’ancora il film di Chaplin, assegna loro».
Come è nata l’esperienza dei due ragazzini sulle tavole del palcoscenico?
Molto casualmente per Gabriele. Con Cognatti stavamo già preparando Il Monello ed eravamo in cerca dei piccoli protagonisti. Il padre di Gabriele, che nella sede del Jobel al Portuense frequentava un corso di recitazione per adulti, lo ha portato a vedere un nostro spettacolo, Canto di Natale da Dickens. Al calar del sipario il piccolo mi è venuto a salutare e mi ha subito colpito. Sveglio, vivace, naturalmente disposto a interagire. Un feeling immediato, tanto che ho chiesto al papà se volesse fargli frequentare un corso di teatro, mentre intanto già pensavo a lui come un possibile Monello. Così sono cominciati i nostri incontri. L’ho condotto per mano. Gli ho spiegato la scena della colazione, nella quale Charlot dà al figlioletto adottivo non sono pane e latte ma anche lezioni di buona educazione e gli insegna il segno della Croce. Poi gli ho fatto vedere la pellicola di Chaplin. Solo dopo questi primi approcci l’ho avuto come allievo, un compito che già svolgo per la fascia d’età cinque-sette anni».
E la storia di Sara qual è stata?
Lei viene dal nostro centro di Valcanneto, vicino a Cerveteri. Dall’età di tre anni e mezzo frequentava il corso tenuto da Fiorella Mezzetti. Ha sostenuto un provino con altre bambine. Le abbiamo spiegato cosa dovesse fare e l’abbiamo scelta senza avere dubbi. Oltretutto cercavamo un’interprete di non più di cinque anni, tenendo conto dello sviluppo temporale delle repliche».
Ma poi come i due piccini sono diventati tanto attori da sostenere la prova con il pubblico?
«Hanno avuto percorsi diversi. Con Gabriele ho fatto sessioni due volte la settimana, non troppo lunghe affinché non si stancasse troppo. Con Sara, già abituata a un corso, ho lavorato anche per quattro ore consecutive. Sono partito dalla musica de Il Monello, ascoltata e analizzata più volte. L’esame della pellicola ha indicato loro la magia e la poesia della vicenda. Gli ho spiegato la necessità di un’espressività amplificata dei gesti poiché non potevamo usare la parola. Il lavoro sulla musica ci ha aiutato anche a seguire le dinamiche della storia, a prendere gli accenti, a essere estremamente precisi perché il linguaggio del volto e del corpo è fondamentale all’intelligibilità della storia.
Che spettacolo è venuto fuori?
«Non uno, ma due, un po’ diversi. Il maschietto ha dato alla messinscena un piglio più vivace, appunto da monello. La bambina, più dolce, ha esaltato il lato poetico del plot, suscitando tenerezza nello spettatore. Prendete appunto la scena della colazione. Gabriele sbriciola in bocca il pane e tira le briciole al vagabondo, che allora gli insegna le buone maniere anche nel mangiare. Lei non lo fa, è morbida, delicata, il poco nutrimento che ha a disposizione genera commozione».
Hanno mai detto di voler smettere?
«Mai. Però Gabriele, al primo debutto assoluto, prima di andare in scena mi ha detto “ho paura” e mi ha stretto la mano. Io l’ho rassicurato ricordandogli che eravamo pronti e che non avrebbe dovuto fare altro che quello che avevamo sempre fatto. Poi si è buttato, ha capito il meccanismo del teatro e non mi ha più parlato di timori».
E a lei che cosa hanno dato?
«Sono anche stati dei suggeritori nello sviluppo dei movimenti. Io partivo con la scena base, poi assemblavo le mie idee e quelle del bambino, sempre sotto la supervisione di Cognatti che dava pulizia all’insieme. Per esempio, quando il Monello tira i sassi contro le finestre e arriva subito il Vagabondo per ripararle e racimolare così qualche spicciolo, i piccoli attori mi chiedevano: posso fare così, col braccio? Oppure, quando il medico capisce che il bambino è un trovatello e lo vuol portare via a Charlot e lui gli sfugge sotto il tavolo, Gabriele mi ha chiesto: adesso monto sulla sedia e ti posso abbracciare….?».
Adesso che succede allo spettacolo?
«Succede che sono cresciuti. Lei per esempio sta assumendo sempre più i caratteri femminili, allontanandosi giocoforza dalla rudezza del Monello. Ma anche lui, cresciuto fisicamente, perde per forza credibilità davanti al pubblico. D’altra parte sono divenuti professionalmente più disciplinati: sistemano i propri oggetti di scena, hanno coscienza della differenza tra scena e backstage mentre all’inizio tutto era per loro un gioco. Certo, si rendono conto che le repliche al Vittoria saranno per loro probabilmente le ultime ne Il Monello. Ma ci scherzano sopra dicendo che lui prenderà il mio posto e lei quello della mamma che abbandona il neonato. Però conserveranno l’esperienza professionale, mentre a noi tocca il compito di trovare e preparare altri bambini. Attualmente nei nostri canali di formazione non ne vediamo nessuno adatto».
Che cosa pensa dei talent in tv con i bambini protagonisti?
«Guardi, con Sara e Gabriele ho lavorato cercando di tirare fuori da ciascuno il meglio, però senza mai forzare. Perché il rischio, altrimenti, è di bruciare un talento. Certo, la tv è un’altra cosa, così come il cinema: Chaplin, per restare in tema, girava infinite volte la stessa scena, per poi scegliere la migliore da utilizzare nel montaggio. Nel teatro non è così: ogni scena deve essere la migliore, non ci sono alternative. Ma non bisogna caricare mai i piccoli attori di troppa responsabilità. In questo gioca un ruolo importante la famiglia. Serve che insegni l’equilibrio e indichi quante altre attività importanti ci sono nella vita. Il compito di noi formatori è di non far mai perdere ai piccoli il contatto con la realtà e di farli restare umili».
E per lei che cosa ha significato lavorare con Sara e Gabriele?
«Mi ha dato tante emozioni, che si ripetono ogni volta che entro in scena. Avviene in relazione al personaggio di Chaplin, che trovo esemplare per tutti gli artisti. Lui è partito dal niente, ha creduto in se stesso ed è diventato un vincente. Anche i bambini li ho visti crescere, passare dal disordine alla maturità professionale, alla disciplina, al rispetto dei ruoli e dei luoghi. Un’avventura unica e irripetibile, che ha sviluppato in me, che non ho figli, un senso della paternità forte. Così come insuperabile sarà il ricordo che avrò di loro».