“Light stone”, un esordio
Nel nome di Shoko
Critico letterario, studioso appassionato di Attilio Bertolucci, Paolo Lagazzi approda al romanzo. Con un’opera che esula dagli schemi precostituiti e che, attraverso la cronistoria di un’ossessione, depone sulla pagina le “intermittenze del cuore”
Paolo Lagazzi, uno dei nostri più rappresentativi critici letterari che si è misurato mirabilmente con l’opera di alcuni classici del nostro Novecento, pubblica a sorpresa il suo romanzo d’esordio, Light stone (Passigli, Firenze, 248 pagine, 18,50 euro). Il titolo è ripreso da un verso tradotto in inglese di Attilio Bertolucci, l’indimenticabile poeta parmense con cui Lagazzi ha intrattenuto un rapporto speciale, sfociato nella pubblicazione dei saggi Rêverie e destino (Garzanti, 1993), La casa del poeta (Garzanti, 1998), del libro di interviste All’improvviso ricordando (Guanda, 1997) e nella curatela delle opere nei “Meridiani” Mondadori nel 1997. Il percorso di Lagazzi è andato configurandosi come una sorta di ideale “approdo” al romanzo, dopo aver sperimentato i generi più disparati: oltre al già ricordato magistero critico bisognerà ricordare due libri di fiabe e la raccolta di racconti Nessuna telefonata sfugge al cielo, edita da Aragno nel 2011.
Light stone è un lavoro che esula dagli schemi precostituiti della nostra narrativa, soprattutto per quel che concerne il tema trattato e l’ambientazione: l’infatuazione pressoché platonica di un violinista affermato, Francesco Alberti, nei confronti di una giovanissima interprete giapponese, Shoko Mitabe, conosciuta durante una tournée a Tokyo nel 2000. Sullo sfondo si staglia la realtà caleidoscopica e rutilante del paese del Sol Levante – di cui Lagazzi è profondo conoscitore e cultore, avendo curato, tra l’altro, diverse antologie di lirica giapponese, nonché testi del poeta Kikuo Takano – opposta a una Milano metamorfica, affiorante nella nebbia «tra autostrade luccicanti di fari in corsa, alberi stenti, cantieri in disarmo, campi di nomadi, discariche, cimiteri di auto, pile di pietre senza scopo o senso».
Ne esce un affresco quanto mai coinvolgente, in cui le «intermittenze del cuore» di proustiana memoria, cadenzate sull’ossessione del maturo violinista nei confronti dell’enigmatica e sfuggente ragazza, vengono rese sulla pagina ora con icastica eleganza ora con un mimetismo linguistico che non disdegna l’inserto di variegati lacerti saggistici. Si spazia così dalle osservazioni su un mondo che riesce a conciliare tradizione e tecnologia al rapporto, spesso ambivalente, tra cultura orientale e occidentale. Shoko stessa, con la sua grazia acerba, le sue movenze fanciullesche, le sue incomprensibili reticenze, incarna l’idea di un Giappone proteiforme, che può deliziarci con la semplice delicatezza di un haiku e, al tempo stesso, confonderci in virtù della paradossale coesistenza di aspetti che, a prima vista, sembrerebbero inconciliabili: «Mai, finora, malgrado le sue molte immersioni nella civiltà giapponese, Francesco era riuscito ad avvertirne come qui il paradosso fondante: il suo essere radicata in un sentimento vivissimo della natura e insieme in un’irresistibile vocazione ai simboli, alle forme, allo stile. Al fuoco incrociato della naturalezza e del gusto per i riti, della spontaneità e della perfezione, il Giappone si manifestava nel grande parco imperiale come lo specchio stesso dei cerimoniali shintoisti, uno specchio in cui tutta la realtà – gli alberi, il cielo, i sassi, gli uccelli – si rifletteva per riconoscersi sacra».
Ma Light stone è prima di tutto la cronistoria di una profonda ossessione, delle peripezie di quel demone che si impadronisce di noi nel momento stesso in cui arriviamo a dipendere sentimentalmente da una persona che sembra provocatoriamente sfuggirci, creando un’impasse, un cortocircuito che può risultare letale. Dopo il primo incontro in Giappone, al protagonista, tornato a Milano, non resta che tessere metodicamente, lentissimamente una tela di ragno che possa catturare in qualche modo l’attenzione di Shoko: per un decennio la loro comunicazione si baserà quasi esclusivamente sulle mail come messaggi in bottiglia lanciati nell’oceano della rete. Sempre più scontate e indecifrabili, le parole si oppongono a silenzi inenarrabili, carichi di un senso perduto e irredimibile. Lagazzi indugia a più riprese nel descrivere questo altalenante carosello di illusioni e disillusioni che irretisce il violinista, sempre più coinvolto nelle spire di un amore impossibile che gradualmente lo allontana dalla moglie Patrizia e dalla figlia Elena.
L’ostinazione di Francesco diventa una sorta di catabasi, quasi un pretesto inconfessato per sfuggire alla propria dimensione di persona talentuosa e privilegiata per annullarsi e diventare filo d’erba, pietra, nuvola. Tutto sembra ruotare intorno alle fattezze quasi adolescenziali di Shoko, come se dalle asperità di quelle forme fosse possibile rigenerarsi, essere altro da sé o, presumibilmente, riappropriarsi di un sé più vero e nascosto. L’immagine di Shoko si riverbera in tutto il libro in maniera sempre differente, come se fosse riflessa da una serie di specchi deformanti che ne alterano irrimediabilmente non solo l’aspetto ma anche il modo di rapportarsi a Francesco.
Un nuovo, fuggevole incontro a Tokyo, a distanza di un decennio dal precedente, non farà che rinverdire i fantasmi di una passione che si trascinerà fino alla scoperta di un segreto insospettabile e alla tragica fine del violinista che abbandonerà tutto e tutti per diventare un clochard: «Fuori, fuori di casa, lontano da quel luogo che custodiva le prove delle sue colpe come reperti fossili, come mummie o cadaveri fra tende di lino stirate con estrema cura, non c’erano centomila marciapiedi, slarghi di strade, strisce di cemento pronti ad accoglierlo, a offrire gli spazi giusti al suo essere assurdo?».
Nonostante traspaia in filigrana l’elemento autobiografico, la vicenda narrata, nel suo ondivago svolgimento, sembra propendere per quello che Stefano Lecchini ha felicemente definito il punto di vista di «un narratore (quasi) onnisciente, capace di volgere in architettura implacabile ogni minimo dettaglio e ogni snodo della scena che racconta, con quella dura forza oggettiva che dovrebbe innervare ogni romanzo inventato dal vero. Ma nello stesso tempo assume completamente la voce di Francesco, si fa divorare dalla sua stessa ossessione; e mentre lancia in aria avverbi e aggettivi come pugni di coriandoli gettati in faccia al Destino, mentre dissemina la pagina di infinite similitudini, metafore e analogie per catturare ciò che non si può catturare, lascia che il suo volto e quello di Francesco, incrociandosi, dissolvano inesauribilmente l’uno nell’altro».