Due esposizioni in conflitto, a Roma
Maxxi energia Ceca
Alla scoperta dell'arte della Repubblica Ceca al Maxxi, tra sorprese e conferme. Tutto il contrario di un'altra mostra nello stesso museo, quella che rende omaggio a Lara Favaretto
Una mostra da non perdere quella che porta in scena nell’ala distaccata del Maxxi diciassette giovani artisti della Repubblica Ceca. Perché serve a capire che in campo artistico la creatività non conosce più in Europa distanze, ritardi, barriere: l’aria che circola, l’uso dei linguaggi, la difficoltà di emergere e trovar senso per le nuove generazioni sono ovunque le stesse. E perché nel campionario delle opere che questa rassegna, curata da Genny Di Bert e impaginata con un allestimento a labirinto di grande effetto da Ottaviano Maria Razzetto, almeno una buona metà rivela talenti spudoratamente maturi.
Asciutta e di forte impatto ad esempio la pittura con cui Martin Matousek rilegge la crescita dei casermoni di periferia usando come tavolozza la stessa grigia e inerte materia di cui si serve: pennellate di cemento impastate direttamente a prender forma sulla tela.
Densa e carica di sospensione e mistero l’istallazione con cui Martin Kokourek per sottrazione ci suggerisce la vitalità minacciata di un frutteto metropolitano: un ramoscello ingabbiato da un paio di ante sghembe di finestre che sembra attaccato alla vita solo dal bagliore di una piccola luce rossa alla base. Chirurgico il lindore prospettico, solo tracce lievi d’ombre sul bianco e segni geometrici, con cui Zdenek Trs insegue e simula il miraggio della terza dimensione gonfiando d’onde e volumi i suoi candidi sfondi. Inquietante e di calibrato sapore retrò l’incubo fotografico di Marek Musil, la testa di un bagnante che esplode in un ventaglio di bolle d’acqua.
Gran voglia di dire, anche ridendoci su. Come quella maschera bianca di Putin (di Kristof Hosek, nella foto accanto al titolo) su cui tre colombe fanno il nido facendo colar giù i loro escrementi: Messaggeri di pace ironizza il titolo. O quel ritratto di ragazzina, banale nella sua semplicità ma riscattato dal colpo d’ala di una bolla di vetro che gli esce come chewing gum soffiato e arrotondato dalle labbra.
Insomma una mostra che nel suo piccolo stuzzica e diverte, cerca e trova empatia. Specularmente opposta a quella, pretenziosa e volutamente non coinvolgente, con cui Lara Favaretto, punta di diamante dell’arte concettuale italiana, presenta al secondo piano dello stesso museo un’istallazione, battezzata Good Luck (Buona Fortuna), che condensa una ricerca protrattasi per oltre tre anni e incentrata sul mistero di grandi personaggi scomparsi. Un pannello all’ingresso ne elenca i nomi. Una ventina, cui l’autrice ha dedicato altrettanti monumenti alla memoria. Numero che nel frattempo si è assottigliato, perché alcune delle opere sono state vendute. Come è capitato a quella intitolata all’economista Federico Caffè, che così grazie alla Favaretto è scomparso di scena per la seconda volta. Un piccolo catalogo ne riassume le biografie, confermando che per ampliare la rosa, l’artista si è concessa qualche licenza. Così, accanto a quello più che titolato del fisico Ettore Majorana, resosi irreperibile durante un viaggio in traghetto verso Napoli, è finito quello di Howard Lovecraft, uno degli inventori del fantahorror, precipitato nell’oblio ma morto di cancro in ospedale come un malato qualunque. Accanto allo scrittore Ambrose Bierce, latitante dal 1913, è finito Leslie Lester Bangs, critico musicale e musicista californiano stroncato da un’overdose.
Per ognuna di queste vite rimaste in sospeso la Favaretto ha costruito un cenotafio, una di quelle tombe senza spoglie che nell’antichità si erigevano per celebrare gli eroi. Un sepolcro diverso dall’altro, modellato in modo stilizzato con lastre di ottone luccicanti come specchi e legno. Per poi riunirli tutti qui in questa sala del Maxxi in una sorta di cimitero bordato di lembi di terra cui si ha accesso attraverso un altro tappeto di terra. Un cimitero di senza nome, perché l’autrice si è rifiutata di battezzare con nome e cognome le tombe. Il segreto è scritto nella sua testa, irraggiungibile da uno spettatore profano che non ha la fortuna di assistere alla visita guidata del vernissage, oppure di acquistare l’opera alle quotazioni di mercato. Basta e avanza lo spettacolo che l’artista ci concede in premio: il bianco della sala tagliato da volumi di varia grandezza, alcuni bassi come cestini dei rifiuti, altri elevati come torri, altri ancora con le pareti accartocciate o coperte di segni. Perché? Come assistere a un film parlato trasformato in un film muto, senza colonna sonora. Uno dei tanti paradossi dell’arte concettuale: suggerire un percorso ma non comunicare l’idea con cui ogni singolo pezzo di strada è stato tracciato, il tragitto al posto dell’opera, che così si sottrae al giudizio. La creazione trasformata in una scatola chiusa. Come quelle valigie che la Favaretto ha piazzato qua e là. Lei giura che dentro ha raccolto oggetti appartenuti a quegli illustri scomparsi, ma ha sigillato ogni cassa per impedirci di aprirle. Idea neanche nuova. Lo aveva fatto anche Piero Manzoni con le sue scatolette. Ma almeno sopra aveva appiccicato un etichetta che toglieva ogni dubbio sul contenuto: merda d’artista.