La guerra arabo-israeliana del 1973, che ebbe un ruolo cruciale per lo sviluppo e la diffusione del wahabismo saudita, ebbe conseguenze impreviste sulle sorti delle popolazioni musulmane nell’Europa dell’Ovest. L’innalzamento dei prezzi del petrolio portò all’inflazione e ad una disoccupazione improvvisa quanto massiccia, che colpì in primo luogo i lavoratori meno specializzati, tra i quali gli immigrati. I governi europei presero delle misure per limitare l’immigrazione, nella speranza di ridurre la disoccupazione, contando sul fatto che gli immigrati rimasti senza lavoro sarebbero tornati nei loro paesi. Ma questi provvedimenti ebbero effetti opposti. La maggior parte degli immigrati preferì affrontare la disoccupazione in Europa piuttosto che nei loro paesi natii e decise di stabilirvisi definitivamente, sottolineando questa scelta con la riunione del gruppo familiare.
Nello spazio di qualche anno, la loro popolazione si arricchì di molte donne e di molti bambini, arrivati in età giovanissima oppure direttamente nati nei paesi d’accoglienza. Alla fine degli anni ’80, questi bambini saranno la prima generazione di giovani adulti di origine musulmana, nati ed educati in un paese europeo, che ne parlano la lingua e ne conoscono la cultura popolare locale, cittadini di questi Stati o fortemente intenzionati a diventarlo.
Alla disoccupazione che impediva l’integrazione venne ad aggiungersi la necessità di adattarsi a una vita familiare non abituale. Le donne, arrivate da poco, che, non parlavano la lingua, vivevano spesso rinchiuse in casa, e, quindi, posero un problema di socializzazione e di costume. I bambini, avendo ricevuto una scolarizzazione in francese, inglese, olandese o tedesco, rappresentarono una sfida inversa: essi provocarono inconsapevolmente una perdita di valore del capitale culturale dei genitori. Fu in questo contesto instabile che si sviluppò un’identità islamica nuova. Essa rispose alla ricerca di senso da parte di popolazioni che avevano scommesso sull’ignoto e cercavano le loro peculiarità.
Fino alla rivoluzione islamica in Iran, le autorità europee avevano una concezione piuttosto differente dell’Islam, considerata una religione conservatrice, ostile alle ideologie rivoluzionarie e al comunismo, ma che rappresentava un fattore di stabilità per popolazioni che si continuava a pensare un giorno sarebbero tornate nei loro paesi d’origine. Ma il rientro di Khomeini a Teheran, i suoi discorsi che incitavano all’esportazione della rivoluzione islamica, le violenze imputabili ai seguaci dell’ayatollah iscritti nelle università europee, trasformarono completamente l’immagine dell’Islam. Proprio nello stesso periodo la Lega islamica mondiale, d’obbedienza saudita, cominciò ad aprire degli uffici nel vecchio continente con il fine di finanziare la costruzione di moschee, attraverso il sostegno di associazioni locali, ritenendo che la dipendenza finanziaria di queste di sarebbe trasformata in alleanza ideologica con il wahabismo.
All’interno dell’Islam europeo di quegli anni gli intellettuali islamici erano rappresentati da studenti che provenivano da paesi musulmani. Alcuni di loro si incaricarono del lavoro di predicazione e di proselitismo, ma non riuscirono a convincere i lavoratori o i disoccupati immigrati. Infatti, questa prima generazione, profondamente segnata dall’emigrazione e preoccupata per l’educazione di figli numerosi che acquistavano una cultura sulla quale non avevano il minimo controllo, era più attirata, in materia religiosa, dalle forme pietiste e rassicuranti, piuttosto che dai militanti che predicavano a favore dello stato islamico.
Questa situazione si trasformò nel 1989 con l’arrivo dell’età adulta delle generazioni dei figli di immigrati che erano cresciuti nell’ambiente europeo e versavano allo stesso tempo in grandi difficoltà sociali. Tra di essi si costituì, per la prima volta in territorio europeo, una gioventù urbana povera d’origine musulmana. La penetrazione dell’ideologia islamista tra queste nuove generazioni fu più feconda e fu aiutata anche alle speranze deluse nelle grandi cause degli anni ’80. In Francia, ad esempio, il movimento SOS-Razzismo, che voleva unire tutti i giovani, indipendentemente dalle loro origini, nell’antirazzismo, lasciò il ricordo di iniziative spettacolari, ma prive di conseguenze sociali. Il movimento “beur”, che tentava di ricostruire un’identità propria dei giovani francesi di origine maghrebina, dimostrò rapidamente i suoi limiti, favorendo soprattutto l’ascesa di una “beur-ghesia”, ristretta all’élite dei più istruiti. Il parziale insuccesso di queste iniziative lasciò un sentimento di delusione e amarezza.
Su un simile terreno divenuto fertile per le idee fondamentaliste, le associazioni nate dall’orbita dei Fratelli Musulmani, della jama’at at-e islamici pakistana o del Refah Partisì turco, impiantate in Europa, adattarono il loro messaggio ad una gioventù urbana povera che sembrava ormai matura per accogliere l’opera di proselitismo. Si svilupparono, così, sermoni e lezioni in moschea, opuscoli che traducevano le opere di Khomeini e degli altri teorici dell’estremismo islamico. Inoltre, fino al 1989, gli Stati europei non rappresentarono che un luogo in cui reclutare militanti e simpatizzanti che sarebbero tornati al paese d’origine per combattere contro i regimi irreligiosi. Nell’Islam d’Europa la dimensione sociale e politica della predicazione furono separate. L’assistenza ai più bisognosi veniva assolta dai gruppi pietisti e dalle confraternite apolitiche, appoggiate dai loro imam ufficiali, che si sforzavano anche di organizzare i corsi d’educazione religiosa destinati ai bambini. I movimenti islamisti, da parte loro, formavano le loro reclute alla lotta ideologica contro il potere algerino, marocchino, tunisino, o turco, contro la presenza indiana in Kashmir, ma evitavano qualsiasi genere di pressione nei confronti degli Stati d’accoglienza.
Le prime generazioni di giovani adulti europei di origine musulmana modificarono, però, la situazione. I loro genitori avevano una scarsa conoscenza delle leggi e portavano il peso degli schemi mentali ereditati dal dominio coloniale. I figli formarono una gioventù cosciente dei propri diritti, pronta a rivendicare e ad individuare come avversari le istituzioni dei paesi che avevano accolto i loro genitori. La polizia, la giustizia, la scuola furono messe sotto processo, incriminate come responsabili del loro insuccesso scolastico, dei problemi d’inserimento nel mercato del lavoro, degli arresti troppo frequenti soltanto a causa del colore della loro pelle, ecc. Gli intellettuali islamisti approfittarono di questo malcontento e decisero di intervenire sul campo politico europeo, facendosi portavoce della gioventù urbana povera. A partire dal 1988 le organizzazioni islamiste fondamentaliste, inoltre, cominciarono a definire l’Europa come dar al-Islam poiché un gran numero di musulmani erano diventati cittadini europei. Essi dovevano dunque avere il diritto di organizzarsi in comunità islamica, applicando le regole della shari’a e intervenire, in quanto tali, nell’ordinamento politico.
In un tale contesto si inserì la fatwa dell’ayatollah Khomeini. L’Islam europeo si trovava in pieno cambiamento e la fatwa non ne fu certo la causa. L’anno 1989 segnò l’apogeo dell’espansione islamista, una ventina d’anni dopo che le idee di Qutb, Mawdudi o Khomeini avevano cominciato ad essere accolte da studenti e giovani intellettuali, per poi incontrare un’eco crescente prima nelle nuove generazioni dei poveri urbani e, in seguito, nella borghesia religiosa. Il decennio inaugurato dalla rivoluzione iraniana, dominato dalla figura di Khomeini, si concluse con la morte della Guida e con l’accresciuta consapevolezza di una grande capacità di mobilitazione del mondo islamico. In quello stesso anno, un regime islamista si impadronì del potere in Sudan, in Palestina, dopo l’inizio dell’Intifada, cominciò ad imporsi la componente islamista di Hamas. Ovunque, i governi del mondo musulmano dovettero moltiplicare le concessioni a forze di opposizione che si richiamavano alla shari’a . Infine il movimento cominciò a penetrare in Occidente attraverso la generazione di giovani adulti nati da genitori immigrati.
Il 1989, però, fu soprattutto l’anno del crollo del comunismo; il simbolo più comune è la caduta del muro di Berlino in novembre, ma, fin dal 15 febbraio, il ritiro delle truppe sovietiche dall’Afghanistan aveva sancito la disfatta dell’Armata rossa sconfitta dal jihad .
Al termine del jihad afghano iniziò a diffondersi il malcontento tra i militanti islamisti. Il leader comunista Mohammed Najibullah, infatti, rimase al suo posto a Kabul, mentre l’alleato statunitense cominciò a prestare ascolto alle voci che descrivevano alcuni dei Freedom fighters come pericolosi fanatici e trafficanti di eroina. I capi delle fazioni filo-wahhabite furono considerati estremisti dagli USA e furono privati di ogni sostegno economico. In Pakistan il primo ministro Benazir Bhutto, eletta nelle elezioni successive alla morte del generale Zia, caduto in attentato nel 1988, non nutriva alcuna simpatia per la corrente islamista afghana che aveva fatto giustiziare suo padre Ali Bhutto nel 1979. Tentò, quindi, di indebolire il principale partito islamista, il jama’at-e islam che, a sua volta, appoggiava il Hezb-e islamii afghano. Tra questi gruppi si usava ricordare il shahid , il martire Zia, la cui morte fu attribuita ad un complotto americano. Crebbe in questi ambienti l’antiamericanismo, mentre, il jihad , nelle intenzioni saudite, avrebbe dovuto canalizzare l’ostilità dei militanti verso l’Unione Sovietica, risparmiando il protettore americano. Le posizioni antioccidentali, quindi, benché in precedenza fossero state messe a tacere dall’afflusso di dollari e di armi della CIA, furono riaffermate con forza. Avvennero, così, incidenti contro le agenzie umanitarie europee ed americane presenti a Peshawar tra i rifugiati afghani.
13. Continua
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