«Codice Italia» a Venezia
L’arte nel labirinto
Il Padiglione Italia curato da Vincenzo Trione alla Biennale Arte non mantiene quel che aveva promesso: chiusi in piccole celle, gli artisti finiscono per non dialogare con la storia né con il futuro
Sarà il titolo: Codice Italia. Che lascia immaginare il patrimonio culturale del nostro paese come una sorta di inesorabile destino genetico; gli artisti di casa come mutanti sopravvissuti a una selezione che li ha cambiati per sempre, gli artisti di altre tradizioni, altri paesi come alieni, barbari. Sarà la retorica fastidiosa del discorso pronunciato dal ministro della cultura Dario Franceschini al taglio del nastro, più o meno lo stesso con cui pochi giorni prima aveva benedetto l’Expo di Milano, vantando là e qui l’eccellenza creativa del made in Italy, un fai da te cui continuiamo a destinare sostegno sempre più irrisorio nel bilancio pubblico, bussando elemosina dai privati.
Sarà l’enfasi stridente, la banalità da spot pubblicitario della multivisione firmata con la mano sinistra da Peter Greenaway, che tra squilli di tromba, accordi di musica barocca, cori di Verdi, immagini scontate di colline in fiore e montagne innevate, musei, chiese, piazze, castelli, opere d’arte accoglie il visitatore nell’atrio del grande hangar in fondo all’Arsenale, e introduce la mostra curata da Vincenzo Trione per questa cinquantaseiesima edizione della Biennale di Venezia. Sarà il coro di richiami inflazionati alla Grande Bellezza, che qui non centra nulla e – Sorrentino ci scusi – non se ne può più. Sarà l’allestimento patinato, il copione da corpo estraneo che Vincenzo Trione ha confezionato per la sua rassegna, chiamandosi fuori dal resto della kermesse. E rifiutando il dialogo sui temi dell’impegno sociale e politico suggeriti da quasi tutte le altre ribalte della Biennale.
Tutto questo e altro ancora ha finito per ridimensionare, mettere tra parentesi il giudizio positivo con cui avevo accolto al momento della presentazione l’idea di impostare il Padiglione Italia seguendo il filo d’Arianna della memoria, del confronto con le radici del mondo classico su cui l’arte italiana si è formata e con cui i nostri artisti di oggi sono costretti a fare i conti. Mi sembrava e mi sembra giusto puntare al recupero del senso della storia, che l’arte contemporanea nel suo vivere e inseguire il qui e ora ha completamente smarrito. E mi era rimasto impresso come una promessa il suggestivo ricordo della mostra che due anni prima, giocando sullo stesso leit motiv, Vincenzo Trione aveva messo in scena nella splendida cornice del Foro romano e del Palatino. Ma lì eravamo nel cuore del mondo classico e gli autori erano stati convocati proprio per dialogare con le sue rovine. Qui invece, a Venezia, la cornice era quella, splendida ma meno carica di evocazioni, del vecchio Arsenale e gli autori prescelti dovevano gioco forza misurarsi con linguaggi di tutto il mondo, la babele di una megarassegna.
Ma Trione per primo non è stato al gioco e ha sottratto al confronto con il caos le opere che aveva selezionato, immergendole con il suo allestimento nella penombra cupa di una sorta di labirinto. Disegnando un monastero di clausura e assegnando ad ogni artista una cella per presentare i suoi lavori. Una forzatura di regia che ha trasformato il padiglione in un mondo a parte di raccoglimento, silenzio, distacco; la visita in un esperienza estatica prima ancora che estetica.
Qualche autore ne ha tratto indubbiamente giovamento. È come entrare in una cripta barocca dove si celebra il mistero di un tempo fuori dal tempo, la visita al siparietto nella quale Nicola Samorì ha deposto le sue tele di corpi deposti dopo la crocefissione o altri supplizi e innalzato su un’intera parete un retablo con altre pitture, reliquiari, statue bianche incastonate nelle nicchie. Sembrano venire e parlarci da un altrove remoto di polvere, sofferenza, sopraffazione le immagini e i fotogrammi di corpi sfatti solcati da ferite e da segni che Paolo Gioli, 73 anni, videomaker e fotografo di enorme talento ma malconosciuto in patria, ha disposto lungo le pareti a firmare la sua prima presenza alla Biennale. Ti inchioda in una vertigine tra stupore, orrore e inquietudine la parete di visioni in bianco e nero di Antonio Biasucci, napoletano, 54 anni, un altro grande fotografo al debutto qui in laguna: una miscela di organico e inorganico, che affianca volti umani che sembrano maschere e reliquie di cemento armato che sembrano alberi fossilizzati.
Trova nel buio e nell’isolamento dello spazio reinventato per l’occasione il suo habitat naturale l’istallazione del romano Andrea Aquilanti, 55 anni: un fondale con le stampe di Piranesi su cui si sovrappongono altri lievi disegni e le ombre di altre immagini proiettate che ti danzano attorno come fantasmi, compensando l’impatto di un’opera che appare un po’ fiacca. Ma il colpo d’ala più spettacolare è la soglia sbarrata da spiragli di pietre dietro la quale Vanessa Beecroft lascia intravedere l’istallazione con cui trascina verso la terza dimensione le atmosfere delle sue abituali coreografie fotografiche: i corpi femminili diventano statue vere; quinte, fondali e arredi prendono corpo in fusti di colonne, assemblaggi di architetture di un passato in rovina posticcio e rivisitato.
Qualche autore si è ribellato irrorando di luce bianca il grottone che gli era stato riservato. Come Mimmo Paladino, ad esempio (nella foto accanto al titolo), che ha trasformato la sua cella nel tempio di una civiltà arcaica e sconosciuta: le pareti istoriate da segni di un alfabeto indecifrabile, in primo piano un dio guerriero attonito e impettito, avvolto da un groviglio di ramature di ferro da cui sporgono come frutti numeri scolpiti e altri cimeli. Qualche altro invece ha tentato di adattarsi all’ambiente ma forse per inesperienza ne è stato inghiottito. Anonimo, già visto e mal valorizzato l’assemblaggio di tubi e magmatici spuntoni neri che il duo Alis/Fillol, i più giovani del cast, ha appeso al soffitto. Debole e manierata la passerella di busti di terracotta, tratti somatici sinteticamente accennati da totem, che Francesco Barocco, 42 anni, torinese ha modellato ed esposto, senza onorare più di tanto la sua prima partecipazione alla Biennale.
Al tirar delle somme: una mostra che, a parte qualche notevole eccezione, appare poco ispirata. Troppi gli artisti che si sono rifugiati nel sicuro dei loro consueti cliché. Eccessivo, sovrabbondante il ricorso ai cimeli del mondo classico: statue, colonne, teschi, marmi. Quasi fosse un obbligo del copione camuffare di simil antico l’ancoraggio o la riscoperta della memoria personale e collettiva e ribadirne così l’italianità. E non si fosse che in piccola parte fatto tesoro di una illuminante osservazione che Umberto Ecco pronuncia in una video intervista che chiude il percorso della mostra. Paragonando l’uso virtuoso della memoria e del culto delle proprie radici al gesto dell’atleta che fa un passo indietro per poi prendere lo slancio, mettersi in movimento.