Danilo Maestosi
Una mostra al Maxxi di Roma

La fotografia negata

Dai Faraglioni dorati a un irriconoscibile Colosseo, dalle finte piramidi di Las Vegas al cielo di Tokio. Omaggio a un fotografo che ha cambiato il postmoderno: Olivo Barbieri

Con la monografia dedicata a Olivo Barbieri in cartellone fino al 15 novembre, il Maxxi, confermando la sua privilegiata vocazione per l’architettura, sigillata dall’insolito edificio dell’archistar Zaha Hadid che ne ha segnato la nascita, e dall’orientamento professionale dei funzionari che ne hanno dai primi passi condiviso e guidato il tragitto, chiude una sorta di tetralogia riservata a tre maestri italiani della fotografia che hanno rivoluzionato il modo di guardare e rappresentare lo spazio urbano e il paesaggio. Dopo Luigi Ghirri e Gaetano Basilico, entrambi scomparsi, è la volta di Olivo Barbieri, 61 anni, nato a Carpi ma ormai cittadino del mondo, con cui ha scelto di misurare la sua cifra d’artista contemporaneo. È il più radicale dei tre, quello che ha spinto la fotografia e le sue tecniche quasi a negare se stesse per sconfinare in un territorio di immagini che si sottraggono alla gabbia dell’istante e della realtà e inseguono la tavolozza e la libertà immaginifica della pittura.

Esemplare l’icona che chiude la mostra, e fa da copertina al catalogo. Una celebre cartolina da souvenir, i Faraglioni di Capri, rivisitata e trasfigurata da sorprendenti viraggi di colore: un mare tra l’oro e l’ocra e un cielo vermiglione infuocato, che trasformano la consistenza cupa e calcinata delle rocce in una ragnatela di segni astratti. Un trucco di postproduzione digitale al quale l’autore aveva già fatto ricorso in una foto del 2012, incastonando l’algida geometria dei grattacieli di Houston con un paio di inserti rossi e neri che ridipingono e rimodellano a ritagli di collage un paio di facciate in primo piano. O risagomando, proprio come in un mosaico di carte applicate, le pareti di ghiaccio di un paesaggio alpino ripreso l’anno scorso per un nuovo ciclo dedicato ai parchi naturali. Contaminazioni e sconfinamenti ammiccanti che potrebbero guidare Barbieri verso orizzonti inediti, ma anche arenare il suo talento visionario nella palude del puro artificio.

olivo barbieri2Molto più ambigue, spaesanti, cariche di fascino e di senso, le ricerche e gli esperimenti che hanno invece consacrato la sua caratura internazionale, sfruttando con qualche licenza e spingendo al limite le potenzialità stesse del linguaggio fotografico, quel suo apparentemente invalicabile ancoraggio al qui ed ora di uno spazio isolato dall’inquadratura, che rende ancora più sorprendente una foto che riesce a catturare un tempo altro, una dimensione visiva nascosta ai nostri occhi.

Premesse già implicite nelle intenzioni degli esordi, cui è dedicato il prologo della mostra. Quei frammenti di flipper rubati come relitti da discarica o cimitero in una fabbrica in dismissione ad intonano il canto del cigno delle icone del pop che avevano dominato e simbolizzato il boom degli anni cinquanta e sessanta. Quelle scene di provincia riscoperte nei suoi rimossi contrappunti di mistero e banalità lungo il solco aperto da Luigi Ghirri per una mostra collettiva del 1982, «Viaggi in Italia», che segna una svolta cruciale per quella generazione di fotografi del nostro paese.

olivo barbieri4Ma il primo vero salto matura negli Anni Novanta quando Olivo Barbieri comincia a concentrarsi sulla fantasmagoria di effetti dell’illuminazione artificiale, a dilatare a dismisura i tempi di esposizione per catturarne la sfuggente teatralità. Ogni luogo ne sprigiona una sua. Il cielo di Tokio e di Osaka si tingono di un rosa confetto tra cui edifici antichi e moderni galleggiano come fantasmi, quello dei Trulli di Alberobello luccica un candore accecante, quello del Campo dei Miracoli di Pisa si trasforma in una lavagna di grigio violaceo sul quale svetta come un monolito alieno la sagoma traforata della torre pendente.

Il secondo scatto di stile scatta attorno al Duemila, con l’uso mirato di una messa a fuoco selettiva, con cui Barbieri trova il modo di tradurre le sue emozioni e il suo disorientamento di viaggiatore che scopre e misura le trasformazioni dei palcoscenici urbani dell’Occidente, i nuovi modelli vitali, contraddittori e contaminati di socialità e di città che l’Oriente del boom, e soprattutto la Cina realizza e mette in circolo. La macchina fotografica concentra la messa a fuoco su uno o più dettagli, quasi mai i più prevedibili, lasciando il resto della scena in una nebbia indeterminata, una sorta di liquido amniotico lattiginoso che pervade il tutto, esalta i contrasti, trasforma in sogni o in incubi ogni visione. Può essere uno scorcio del centro vecchio di Lhasa, sempre più cinese, sempre meno tibetano. O un inquadratura della folla che sciama nella piazza del Campo di Siena. Le gallerie sovrapposte e cariche di festoni di un ipermercato cinese, o gli spalti gremiti su uno stadio che si specchia su un campo di calcio dove anche i giocatori così imprecisi e sfocati assomigliano a burattini.

olivo barbieri3Il terzo e ultimo balzo in avanti prende corpo quando lavorando ad un progetto sulle grandi metropoli (più di quaranta visitate in una decina d’anni) che intitola provocatoriamente «Site specific», come se ogni realtà urbana che indaga con i suoi scatti non fosse che una sorta di cangiante istallazione, Barbieri accentua il distacco del suo punto di vista riprendendo le immagini da un elicottero in volo. E continuando ad usare anche qui la strategia della messa a fuoco sfalsata. Un’irruzione nei territori evanescenti del postmodermo che trascina verso l’irriconoscibile anche il giù visto, come la cavea del Colosseo, le piramidi posticce di Las Vegas, la ragnatela di viadotti sospesi di Shangai. Il mondo come una sfibrante commedia. Un’infinita trama di scambi tra finzione e realtà. A Pechino, dove non ottiene il permesso di sorvolo in elicottero, Barbieri fotografa un modellino da museo di città. Difficile scoprire la differenza. Un abbaglio di percezione su cui molti architetti hanno cominciato ad arrovellarsi.

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