Al museo della Fondazione Arena di Verona
La Callas di Dario Fo
Dario Fo ha ricostruito (e raccontato per immagini) la vita tormentata e mitica di Maria Callas, più mito che donna. Il segno di un incontro (teatrale) mancato
«Moderna, libera, prorompente. Proprio come Franca». Dario Fo, novant’anni nel 2016, “dipinge” Maria Callas come omaggio alla compagna di vita e scene scomparsa nel maggio del 2013. Con la Rame aveva incominciato a scrivere un testo teatrale sul soprano greco «sconosciuto o peggio ancora dimenticato»: una sorta di biografia teatralizzata «contro le balle» che hanno fatto di «una donna che merita molto, una cialtrona che cade sempre in piedi». Franca, ricorda il premio Nobel per la Letteratura, voleva essere Maria all’Arena di Verona: «L’aveva conosciuta nella sartoria della sorella, Pia, e aveva intuito le sofferenze che portava nel cuore, la violenza totale dei sentimenti tipica della tragedia greca». La drammaturgia, testimonianza e documento, era rimasta sospesa con la scomparsa dell’attrice, poi Fo l’ha completata nel libro Una Callas dimenticata, pubblicato lo scorso ottobre da Franco Cosimo Panini: un dialogo a tre voci in cui la cantante – tra grottesco e paradosso alla maniera dei satirici della sua terra – racconta se stessa, le difficoltà per affermarsi, il successo, gli amori, e in cui avvenimenti dolorosi si intrecciano ad episodi divertenti. A corredo la luminosità dei disegni del poliedrico autore, attore, scenografo, regista e pittore. Quelle illustrazioni, dalla forza espressiva ed iconografica di una variopinta scenografia teatrale, si sono sviluppate ora nel corpus – oltre settanta opere – della bella mostra Dario Fo dipinge Maria Callas, fino al 27 settembre allestita all’Amo (Arena Museo Opera), il museo della Fondazione Arena di Verona a palazzo Forti.
A volerla fortemente è stato il soprintendente Francesco Girondini che ha spalancato, a tre anni dalla sua inaugurazione, le porte del tempio della lirica «a un grande evento che vede protagonisti due miti del Novecento: un genio che racconta uno dei più incredibili talenti di ogni tempo». Ed è anche il secondo tributo che l’Arena rende alla “divina” (c’è un’intera sala a lei dedicata) forte del legame sancito proprio dal debutto italiano a Verona, nel 1947, con la Gioconda di Ponchielli, grazie al tenore Giovanni Zenetello, fondatore del Festival veronese, che la scoprì e la scritturò.
Quadri da vedere e da toccare, che scorrono sotto gli occhi, nella loro tavolozza cromatica, come i cartelloni dei cantastorie, ognuno con la sua didascalia narrata, a partire, spiega Fo, «dai primi gemiti e gorgheggi di quella che sarà una delle più grandi interpreti del bel canto dell’ultimo secolo». Lui la Callas l’aveva vista una sola volta alla Scala, studente all’Accademia di Brera, ingaggiato con gli altri allievi «per rinfrescare i fondali e i drappi di repertorio per i nuovi allestimenti». C’è una ragazza attraente sul proscenio, inizia a cantare: «Tutti noi ci bloccammo, di lì a poco eravamo dietro le quinte, ad ascoltare affascinati l’aria di Casta Diva».
Dal colpo di fulmine dei vent’anni all’urgenza in maturità – «una pazza idea» – di far riscoprire la vera Callas, mettendo in luce le verità nascoste da aneddotiche stupide e ottuse per restituirci il ritratto, reale e al tempo stesso impossibile, della diva-donna carismatica e mutevole, tra i colori caldi del Mediterraneo – Venere nuda, i seni e i fianchi generosi, sulla spiaggia di Posillipo – e le ombre dell’inquietudine che l’ha sempre accompagnata, sonnambula di un sogno mai vissuto.
Ne esce fuori una felice contaminazione tra suggestioni pittoriche espressionistico-metafisiche e narrazione epica, a volte drammatica, a volte ironica, soprattutto poetica. «La Callas – dice Fo col rimpianto di aver perso l’occasione straordinaria di firmare la regia di un’opera con la grande cantante – aveva studiato in Grecia, subiva il fascino e la disperazione delle eroine tragiche. Ma era anche combattiva e sarcastica. Nata per cantare con una voce che ti entrava nel cuore e te la faceva amare, un carattere da furia greca, che te la faceva odiare». Ecco, tra i tanti capitoli illustrati di una vita in bilico, sconvolta da passioni e scandali, Maria che sorride al pubblico con un fascio di ravanelli tra le braccia. Scala, dicembre 1954: un gruppo di loggionisti, fans della Tebaldi, le lancia gli ortaggi, lei, miope, li scambia per fiori e ringrazia, poi si accorge dell’errore e li addenta in una standing ovation travolgente. Ecco L’isola di Torcello, location della dichiarazione d’amore dell’impresario Titta Meneghini alla florida ragazzona appena giunta in Italia dall’America, col sequel «Maria e Meneghini ormai eravamo amanti», che rievoca la stagione sentimentale con il romantico scapolone cinquantenne poi futuro marito, e agente: gli occhi di velluto e il sorriso smagliante che addolciscono i lineamenti marcati, la Callas è in posa col paffuto imprenditore-pigmalione.
Ecco le maestre: l’italo-americana “Sandruzza”, che fa muovere i primi passi al prodigio che già a quattro anni stupisce coi suoi gorgheggi; ed Elvira de Hidalgo, celebrità francese intrappolata ad Atene dalla guerra, che ne affina le doti e l’avvia alle scene. La sequenza inquadra l’incontro tra “Maria e Bagarozzi”, avvocato tuttofare e impresario di pochi scrupoli e dalle mani lunghe, artefice dell’arrivo in Italia della Callas pagato. Si sofferma sull’Arena, «il più grande teatro d’opera al mondo» e sugli allestimenti dell’Aida e della Medea. Trionfi di teatro in teatro con la nota dolente del peso eccessivo – quasi cento chili caricati dalla cintola in giù – che nel tempo crea insicurezza e disperazione. Il pittore entra nell’intimità della frustrazione di una «bambina piuttosto abbondante» poi giovane «fin troppo grassa per un soprano»: il ciclo è scandito dall’Allegoria di una gigantessa, Maria-Gulliver senza veli assediata da omini, e da Metamorfosi, il magico dimagrimento che la trasforma in una top model di 50 chili.
Atto secondo, fa ingresso Visconti. L’incontro è delineato nella serie «Grazie a Visconti impara a muoversi con libertà». «Alla Callas – rivela Fo – Luchino insegnò tutto, a essere fuori schema, e lei ne faceva tesoro. Hai una voce potente e delicata, ma viene da un corpo non tuo, le diceva, io ti insegnerò a muoverlo legandoti le braccia e le mani». La biografia-fumetto si avvia alla parabola discendente. La cavalcata trionfale inizia ad avere alti e bassi, c’è il tonfo all’Opera di Roma, le liti con i partner, i conflitti con i soprintendenti, la folla che si fa gelida. È una tensione che spossa Maria, “gladiatore nell’arena” – Fo evidenzia la tristezza del volto, privilegiando i chiaroscuri – che rivendica una pausa. Onassis l’invita ad una crociera sul suo Cristina e, su quel panfilo da
nababbi dove si parla la sua lingua natia, la Callas «ritrova un timbro vitale dimenticato da tempo». Aristotele ha un’ossessione morbosa per quella gemma che vuole rinchiudere nel suo scrigno, lei è stregata, si lascia andare senza ritegno. Fo ce la presenta a malapena coperta da una tunica, ammiccante, radiosa, mentre scivola oltre la soglia segreta della felicità. Non sa di avviarsi al massacro, si illude di creare una famiglia con l’armatore miliardario, di avere un figlio, di continuare a cantare. Sarà un amore distruttivo, «brutto e violento», una Medea sedotta e abbandonata, sostituita nel cuore di Onassis da Jacqueline Kennedy. Fo la dipinge trionfante ne «Il contratto» che rievoca l’osceno patto matrimoniale imposto dalla lady più famosa del globo. Maria è a pezzi, va avanti a forza di tranquillanti, rifiuta le scritture, la voce ha perso smalto.
Ultimi flash verso il tramonto descritti in quattro tavole: «Maria Callas e Di Stefano»; «Il più grande tenore s’innamora della regina del bel canto», «Io non voglio stare con te, voglio vivere con te» e il «Vieni a vivere con me»: lo scambio di sguardi complici, una partitura musicale che li unisce come fede nuziale. L’ennesima finzione a cui lei vuole credere, nel finale di tragedia è Violetta, «infelice, sventurata», ritirata dal mondo, solo il medico e due domestici fedeli mentre il cuore cessa di battere. Parigi, 1977, così si spegne la divina, il mito relegato all’oblio di una «Callas dimenticata» che oggi trionfa nuovamente a Verona.