A proposito di «XXI Secolo»
Il dolore banale
Tra l'immediato e il futuribile, Paolo Zardi racconta la storia di una vita (lavorativamente) solida che diventa precaria negli affetti. Ma con un eccesso di manierismo. Ai limiti della banalità
Cosa succede se proviamo ad esasperare i tratti (oramai acclarati) dell’epoca barbara nella quale c’è toccato in sorte di vivere? È ciò che prova a fare Paolo Zardi con XXI Secolo (Neo, 2015), di fresco entrato nella sporca dozzina dello Strega di quest’anno. In un imprecisato futuro di un secolo che, per quanto non ancora giunto a metà, appare senza dubbio votato a divenire il «più merdoso della storia», un «uomo qualunque» che ha prestissimo rinunciato alla studio e sposato la religione del lavoro (fa il venditore di depuratori d’acqua e vive il porta a porta come un vero e proprio “atto d’amore”), vede scalfito il suo granitico ottimismo – che gli aveva consentito di resistere indenne allo spettro della crisi – dalla seria malattia della moglie Eleonore e dalla successiva (e forse ancor più terribile) scoperta del tradimento di lei. Da questo momento, l’uomo, andata in frantumi la «teoria della sua vita», si trova risucchiato nel gorgo della «triste retorica di domande irrisolte» che lo costringono a ripensare altrimenti il suo stare al mondo.
Nell’Occidente immaginato da Paolo Zardi, scoppiato sotto i colpi della propria bulimica ipertrofia consumistica, si respira un clima di dismissione, di perenne rottamazione, di “dispiacere sistematico”. Al punto che nello scenario mondiale gli occidentali sono adesso i meno attrezzati, i meno adatti (nell’ottica di questa nuova darwiniana dimensione geopolitica) alla lotta per non soccombere («ogni cosa, ormai, era una lotta per la sopravvivenza»). E, manco a dirlo, la crisi materiale si riverbera in una più dilagante peste esistenziale: la frenesia operosa del XX secolo avendo ceduto il posto a una conclamata abulia («La gente aveva perso interesse per la realtà, la subiva con la consapevolezza che le cose andassero male, e non ci si poteva fare nulla»), suggerita anche dalla modularità ossessiva, escheriana, del paesaggio urbano.
Libro di alti e bassi, XXI Secolo: pochissimi alti e molti bassi, in verità. Non solo per quell’ansia descrittiva che impegna Zardi nel definire il nuovo ordine mondiale, effetto collaterale di un plot narrativo che se induce istintivamente lo scrittore a calcare la mano, lo vede troppo spesso smarrire la misura, nel caratterizzare una situazione, un ambiente, uno stato d’animo, laddove sarebbe stato preferibile concedere ragionevoli spanne, come nella vita, al ‘non-detto’ (la lezione di Calvino rimane sempre attuale). A non tenere sovente è proprio l’ordito della scrittura, infarcita di momenti di imbarazzante banalità, d’ingenuità della penna che non di rado suonano grottesche, per i quali non si può nemmeno parlare di una naiveté come peculiare marchio di fabbrica (penso ai romanzi di Paolo Di Paolo), data l’ambizione da canto della fine che rende ancor più macroscopiche simili cadute stilistiche. Qualche esempio? La camera d’albergo nella quale il protagonista del romanzo trascorre le notti mentre la moglie si trova in terapia intensiva «galleggiava sulle lacrime», mentre il nero alla reception «presidiava, governava, come un dio paziente, l’inarrestabile flusso del dolore e dell’ambita salvezza»; nel XXI secolo la libertà «aveva il suono di una parola dimenticata, come “baciabasso”, o “resipiscenza”»; di un vecchio affacciato alla finestra si dice che «sembrava valutare i benefici di un’eutanasia gravitazionale». Oppure, si legga questo pensiero suggerito al protagonista dallo sfilare davanti ai suoi occhi di due ragazzini, mano nella mano: «Quella era la vita: fruscii, contatti, carezze, odori». E che dire di sentenze banalotte, buttate lì, come questa: «c’era stato un tempo in cui gli uomini avevano saputo amare»? E, per finire, a proposito del sentimento per la moglie in coma e che l’ha tradita, leggiamo: «Amava Eleonore, e la odiava con tutto se stesso. Sapeva che più la odiava, più l’avrebbe amata, e più l’avrebbe amata e più l’avrebbe odiata: quel tormento gli inchiodava l’anima a una croce». E qui mi fermo.
Insomma, per quanto Paolo Zardi s’impegni a sondare il mistero degli anni a venire che ci attendono, si sforzi di raccontare la nostra comune storia di precari esistenziali, opponendo a questa estenuata ed estenuante deriva la condivisibile etica della dedizione al lavoro e alla famiglia, ed essenzialmente improntata all’imperativo dell’amore (apprezzabile la scena finale della fuga dall’ospedale e del ritorno a casa), XXI Secolo rimane un romanzo irrisolto, compresso, e la cui materia ambiziosa avrebbe dovuto essere maneggiata con maggiore cura.
Tuttavia, viene da porsi ancora un’ultima domanda: cosa ci rivela (al netto delle troppe stonature) questo libro in gran parte giocato male dal suo autore? Che nell’estrapolare dal potenziale universo dei possibili narrativi un romanzo, non si può mai prescindere dal lavoro sulla scrittura; ancor più quando, come nel caso della storia raccontata da Paolo Zardi, si opti per il travestimento fantascientifico e fantapolitico per dire della nostra contemporaneità. Perché si senta l’autenticità nell’illuminare la narrazione del nostro destino, per esempio come accade senz’altro leggendo l’ambiziosissimo ma del tutto risolto La vita in tempo di pace di Francesco Pecoraro (Ponte alle Grazie, 2013), sarebbe necessario che tanto lo scrittore quanto il lettore condividano (direi quasi empaticamente) la”fatica” della scrittura.
domenico.calcaterra@gmail.com