Università di casa nostra: fatti o finzioni?
Il benefico effetto frustrazione
Come essere respinti dal sistema accademico nostrano per realizzare all’estero i propri primati. Storia esemplare di un meccanismo suo malgrado virtuoso e di un cervello “messo in fuga”
Si guardò indietro e sentì di dover ringraziare il sistema universitario italiano perché, almeno con lui, era riuscito a fargli capire come orientare le sue scelte e fargli prendere delle decisioni che, in condizioni più protettive, facilmente non avrebbe preso. Poteva sostenere, senza timore di essere smentito, che il sistema segue una prassi psicologica importante, quella di stimolare le risorse individuali attraverso un meccanismo di frustrazioni subdole e continue ma, evidentemente, di incalcolabile efficacia.
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Come docente, era arrivato all’università prestissimo, un anno dopo la laurea, a venticinque anni. Era stato nominato supplente, presso un istituto di psichiatria, di una assistente di ruolo trasferitasi in un’altra città per ‘malattia’ (alcuni, maligni, non credevano a questa giustificazione). Per quel posto non era necessario un concorso ma bastava un colloquio (‘chiamata’ nel gergo semiufficiale) del direttore esattamente come accade nelle università nordeuropee o americane. Risultò simpatico – così credette – e probabilmente venne apprezzata una certa esperienza con test psicologici che aveva maturato durante il corso degli studi. Dopo due anni, il professore, volendo tornare nella sede principale, trovò chi potesse dargli un aiutino per il trasferimento che, poco dopo, ottenne. In cambio, offrì il suo posto per un protegé dell’amico che lo aveva aiutato. La famosa assistente, improvvisamente guarita, tornò in sede, il supplente venne garbatamente messo alla porta, la signora tornò in malattia e il protetto prese il suo posto. Un espediente piuttosto tipico dell’accademia italiana, probabilmente utilizzato per offrire possibilità di lavoro a più persone.
Nell’incertezza, aveva partecipato a un concorso ospedaliero, lo aveva vinto e si trovò nella gabbia dei leoni di un reparto psichiatrico dove il primario arrivava, firmava, se ne andava, per tornare 15 minuti prima della firma di uscita senza che il direttore facesse una piega. D’altro canto, il gran capo non si scomponeva neanche quando il personale sottraeva grandi quantità di cibo pregiato da portare a casa per poi servire (parola impegnativa) delle brodaglie orribili ai ricoverati. La parentesi assistenziale si chiuse quando una legge sulla idoneità universitaria consentiva a chi fosse stato precario per due anni, di passare di ruolo. Proprio su misura per lui. Non era tutto automatico ma a discrezione del direttore che, nel suo caso, era poco favorevole al passaggio, su suggerimento di quel predecessore trasferito che non risparmiò per motivi sconosciuti una contro-raccomandazione. Fortunatamente, qualcuno, a sua insaputa, consigliò al nuovo capo che perdere un posto di ricercatore era una follia in un istituto con sole due persone e così si trovò di nuovo nel suo ruolo precedente accanto al ‘protetto’ e sotto un capo che non lo teneva in grande simpatia.
Nei venti anni successivi di vita universitaria, vi furono tre o quattro nuove leggi sui concorsi universitari; una più complicata della precedente ma tutte con il denominatore comune di non minacciare la discrezionalità delle commissioni. Partecipò a due-tre prove e venne sistematicamente eliminato, mancando l’appoggio del direttore che aveva capito quanto la sua priorità fosse soltanto la ricerca e quanto le beghe accademiche lo avrebbero distratto dai suoi interessi più importanti. Così, la frustrazione della carriera fu compensata dalla libertà di passare del tempo negli Stati Uniti per sviluppare qualche ricerca. Senza la lungimiranza e la frustrazione costruttiva offerta dal capo sarebbe rimasto dov’era magari promosso ma infelice. Invece, iniziò una tournée che lo vide a Baltimora, al Johns Hopkins, a Philadelphia, alla University of Pennsylvania, a Los Angeles, alla Ucla, per poi approdare in via definitiva alla Harvard University. Qui tutto cominciò con una collaborazione a distanza con un professore che apprezzò i suoi studi e lo invitò per un soggiorno a Boston. Iniziarono una collaborazione che continuò nel tempo. Ricevette fondi di ricerca (americani) e premi internazionali che si sarebbe sognato se l’esperienza universitaria italiana fosse stata meno incoraggiante. Atttraversava l’Atlantico più volte all’anno per mantenere anche la sua posizione di ricercatore italiano.
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Nel frattempo, un professore di filosofia del dipartimento di psicologia pensò di aiutarlo e lo convinse al cambio di facoltà che fu benedetto dal suo direttore psichiatrico. L’atmosfera psicologica era più rilassante anche se, tutto sommato, non era esattamente il suo ambiente. Svolgeva tutte le lezioni, portava avanti la ricerca, partecipava alle decine di inconcludenti riunioni di dipartimento, facoltà, corso di studio dove ogni volta si cambiavano regole precedenti sull’onda di una creatività tutta italica. Fortunosamente, dopo anni vinse un concorso per professore associato. Eppure, un momento di debolezza e nostalgia per la carriera medica, lo convinse a partecipare a una prova per professore ordinario. Sapeva che, in questi casi, è bene andare solo se si è ragionevolmente sicuri di vincere che, tradotto in accademichese, significa se si è ‘protetti’ da qualcuno. Questo è spesso un membro della commissione che manovra per diventare tale al fine di sostenere un suo candidato. Infatti, nella stragrande maggioranza dei casi, i candidati sono in numero perfetto, tanti quanti sono i posti messi a concorso, per evitare discussioni o spiacevoli valutazioni di merito. In quell’occasione era il quarto. Nessuno poteva impedirgli di partecipare pur sapendo che il gesto non sarebbe stato apprezzato. D’altro canto, se non avesse tentato, sarebbe rimasto dov’era.
Le valutazioni comparative (così si chiamavano), richiedevano appunto dei paragoni fra i vari titoli dei candidati. Le sue pubblicazioni internazionali, grazie alle esperienze statunitensi, erano superiori non solo a quelle dei candidati, ma anche a quelle dei commissari e, forse anche per questo motivo, fu eliminato. La reazione fu composta in quanto attesa, ma pensò che forse era il caso di dare fiato alle trombe. Ragionò su un ricorso dopo aver parlato con un giudice che lo spinse ad andare avanti. Dopo un discreto periodo di tempo, il Tar regionale gli diede ragione e dopo altri anni il Consiglio di Stato diede torto sia al tribunale regionale sia a lui. Parcella di favore dell’avvocato, cinquemila euro che si potevano spendere meglio in mille altri modi. In fin dei conti una somma onesta per una lezione di vita importante: mai opporsi a un sistema forte. Lezione che, però, non apprese fino in fondo tanto da riprovarci. Sarebbe poco interessante ripercorrere la storia di questo altro fallimento seguito da un altro ricorso e da un’altra parcella simile. Un dettaglio, però. Un suo libro venne molto criticato per la mancanza (non vera) di un argomento ritenuto essenziale da un commissario, lo stesso che proteggeva un candidato la cui unica monografia era stata pubblicata da una tipografia sottocasa (per i concorsi universitari italiani anche quello è un titolo) probabilmente in due-tre copie. Si consolò con la proverbiale incomprensione dei geni. La liberazione, nelle more del secondo procedimento, arrivò con il pensionamento e la chiusura di tutti i fastidi universitari italiani.
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Non si è mai considerato un cervello in fuga, non essendo mai scappato. Anzi, ha sempre pensato di essere un privilegiato mantenendo, seppure a tratti faticosamente, il piede in due staffe transatlantiche. Se l’accademia italiana non fosse stata per lui, come per molti altri, tanto respingente e frustrante, nessuno degli espatriati italici sarebbe riuscito a sviluppare le proprie aspirazioni e ricerche. Il sistema è del tutto virtuoso a pensarci bene. Risponde al dettato cristiano che gli ultimi (quelli con poche chance) saranno i primi (almeno accademicamente), mentre i primi veri hanno le carte in regola per andare a trovare i loro primati altrove. Neanche volendo si poteva pensare a un sistema tanto perfetto.