Radiografia del terrorismo/14
I mercenari del jihad
Nel 1990, morto Khomeini e nell'impossibilità di difendere Saddam, i militanti dell'estremismo islamico si sparsero per il mondo, dal Pakistan alla Francia. E cominciò una nuova "guerra santa"
Quando l’Iraq invase il Kuwait, il 2 agosto 1990, la maggior parte dei movimenti islamisti espresse la propria condanna per un paese musulmano che ne annetteva un altro. Si chiese unanimemente a Saddam Hussein di ritirare le sue truppe dal Kuwait per non fornire alcun pretesto all’intervento militare occidentale. Ma questo intervento risultò inevitabile e la corrente islamista fondamentalista vide in esso un complotto israelo-americano per dominare il Medio Oriente e si schierò contro la monarchia saudita e il Kuwait. Particolarmente sorprendenti furono le violente prese di posizione dei rappresentanti del jama’at-e islam, le cui organizzazioni avevano largamente beneficiato dell’aiuto finanziario saudita- kuwaitiano negli anni ’80. Queste posizioni rappresentarono la delusione provocata dall’abbandono del jihad da parte dei governi di Washington e di Riyadh, ai quali, dopo il crollo dell’URSS, l’indebolimento dell’Iran e la morte di Khomeini, non interessarono più le cause afghana e pakistana. Sulla loro scia, tutti i mujahidin rimasti sul posto seguirono le orme dei partiti islamisti e si emanciparono dalla tutela saudita, schierandosi contro di essa.
Questa specie di associazione internazionale di veterani del jihad, sottratta ad ogni forma di controllo statale, offrì il suo aiuto alle più diverse cause dell’islamismo radicale nel mondo intero. Essa non era più espressione degli interessi della borghesia religiosa né dei giovani poveri della città, anche se i suoi militanti provenivano da questi ambienti. La disseminazione dei combattenti afghani li portò in Egitto, Sudan, Yemen, Arabia, Emirati e Giordania. Furono anche attratti dalle guerre che impegnavano comunità islamiche, prima in Bosnia e poi in Cecenia. Alcuni tra quegli integralisti si trovarono, poi, di nuovo disponibili, oppure perseguitati. Dopo l’asilo concesso da un Sudan ospitale, ripiegarono per una seconda volta sull’Afghanistan e sui suoi confini col Pakistan. Nel maggio 1996 venne a stabilirsi nella regione lo stesso Osama bin Laden, considerato indesiderabile nel Sudan e rappresentante della tradizione integralista locale sostenuta dal wahhabismo. Il movimento talebano, infatti, conoscerà la punta estrema dell’irredentismo nell’articolazione di un wahhabismo di base con la radicalizzazione apportata dalla tradizione integralista egiziana al sistema totalitario elaborato da Mawdudi. Quella tradizione sarà fisicamente presente sul suolo afghano nella persona di Ayman al-Zawhari, mentre il mullah ‘Omar non fu altro che il figlio spirituale di quegli incroci.
I combattenti del jihad, addestrati alla lotta e a loro volta capaci di addestrare, divennero professionisti e si stanziarono in aree del Pakistan o nei campi dei mujahidin afghani. Intorno al nucleo centrale dei militanti più attivi c’erano molti simpatizzanti (soprattutto pakistani) che vivevano in condizione di precarietà. Ad essi si univano, per veri e propri corsi di formazione, giovani islamisti del mondo intero, fra cui anche una buona parte degli esecutori degli attentati realizzati in Francia nel 1995. Essi costituivano un serbatoio a cui potevano attingere i servizi di sicurezza dei vari Stati interessati alla strumentalizzazione dei militanti estremisti senza particolari legami.
La stessa nascita dei talebani fu una conseguenza del jihad afghano. Al momento della nascita del Pakistan, nel 1947, gli ulema crearono un partito politico, lo jamiat-e ulema-e islam (associazione degli ulema dell’Islam), il JUL, destinato a tutelare uno stile di vita islamico in uno Stato piuttosto laicizzato e a negoziare la concessione di fondi per le loro scuole. Grazie all’appoggio di decine di migliaia di allievi e diplomati delle loro scuole, gli ulema riuscirono a partecipare attivamente alla vita politica del paese, schierandosi contro tutto ciò che potesse mettere in discussione la loro concezione dell’ordine islamico. Durante la presidenza di Zia, tra il 1977 e il 1988, la decisione del dittatore di imporre l’Islam sunnita come norma e di detrarre l’obolo legale, la zakat, direttamente dai conti bancari, a cui seguì nel 1980 la rivolta del 15-20% dei pakistani di fede sciita, fornì una nuova vocazione alla lotta armata contro lo sciismo. Nel 1980 gli sciiti crearono un partito per salvaguardare l’identità della propria comunità contro l’onnipotenza sunnita, in seguito alle minacce rappresentate dal prelievo automatico della zakat. Questo movimento, il tetri-e nifaz-e fiqh-e jafria (movimento per l’applicazione della giurisprudenza sciita) manifestò grande entusiasmo, a partire dal 1984, per la rivoluzione iraniana. Gli aiuti che esso ricevette da Teheran suscitarono inquietudine nei gruppi sunniti e l’Arabia Saudita, che considerava questo movimento un tallone d’Achille per il jihad afghano, concesse numerose elargizioni ai gruppi disposti a combattere gli sciiti. Il JUI, grazie ai contributi economici per le sue istituzioni scolastiche, poté accrescere il numero degli studenti e accolse ed educò allievi delle famiglie più povere. Nel 1985, un dirigente del JUI, Haq Nawaz Jhangvi, creò un movimento giovanile paramilitare chiamato sipah-e sahaba-e Pakistan ( i soldati dei compagni del Profeta in Pakistan), che si diede l’obiettivo di far dichiarare infedeli gli sciiti e non esitava a ricorrere alla violenza contro di loro. Sulla sua scia, nel 1994, nacque il lashkar-e Jhangvi (l’esercito di Jhangvi), specializzato nell’omicidio di sciiti e, nel 1993, il harkatul ansar (movimento dei sostenitori), i cui militanti si fecero la fama di decapitare gli infedeli. Tale delirio di fanatismo si estese anche in ambiente sciita con il sipah-e Mohammed Pakistan (i soldati del Profeta Maometto in Pakistan), SMP.
Questa acutizzazione della violenza in nome della religione fu dovuta anche alle risorse finanziarie e militari messe a disposizione del jihad afghano e fu l’immagine di una profonda crisi sociale che attraversò il Pakistan, in particolare il Punjab meridionale, dove i figli dei contadini poveri sunniti dovettero confrontarsi, in un contesto di esplosione demografica, con i proprietari terrieri, per lo più sciiti. Le madrasah, le scuole degli ulema, quindi, mettevano i loro studenti al riparo da queste tensioni sociali per tutta la durata degli studi e, nello steso tempo, potevano canalizzare la loro violenza mettendola al servizio di un jihad diretto contro chiunque fosse stato definito infedele al maestro. L’estrema devozione di questi studenti per i loro ulema, da cui venivano istruiti per anni e con cui convivevano senza contatti con il mondo esterno, fornì loro uno spirito di appartenenza che annullò la volontà individuale.
Dopo la guerra del Golfo il mondo del wahhabismo saudita rimase scottato dall’impegno militare a fianco dell’Iraq della jama’at-e islam pakistana e dello Hezb-e islamii afghano, poiché entrambi ricevettero abbondanti finanziamenti per un decennio. Anche il JUI si espresse contro la presenza di soldati empi in Arabia, ma aveva mostrato un odio minore nei confronti di Riyadh. Non potendo, però, privarsi di tutti i suoi referenti in campo religioso pakistano, la monarchia saudita, ormai diffidente nei confronti della jama’at-e islam, si spostò sullo JUI, che non era legato ai Fratelli Musulmani, era ostile agli sciiti, alle confraternite e all’Iraq e predicava una rigorosa ortodossia religiosa simile per certi versi alla pratica wahhabita. La situazione era matura perché i sauditi appoggiassero i talebani. L’altro appoggio di cui poterono godere i talebani e il JUI fu quello del secondo governo di Benazir Bhutto che, estromessa dal potere in seguito alle pressioni dell’esercito che, nel 1990, diede il proprio sostegno alla coalizione capeggiata da Sharif, vinse nuovamente le lezioni nel 1993. Bhutto diede al JUI, che la appoggiava, importanti posti di potere. Allo stesso tempo, il suo governo era preoccupato dell’anarchia che regnava in Afghanistan aggravata, nel 1992, dalla caduta di Kabul, finita nelle mani di una coalizione di mujahidin ed ex sostenitori del potere comunista. Il generale Babar, ministro dell’Interno del governo Bhutto, mandò, nel 1994, un convoglio di camion attraverso l’Afghanistan sud-occidentale verso il Turkmenistan che, venne intercettato e, successivamente, liberato da migliaia di talebani afghani armati, venuti appositamente dalle madrasah delle regioni di frontiera del Pakistan. I talebani si impadronirono della capitale dell’Afghanistan meridionale, Kandahar. Nel 1996 anche Kabul finì nelle loro mani e, nel 1998, essi costrinsero il loro ultimo avversario, il comandante Massud, a ritirarsi nella valle del Panshir, ai confini con il Tagikistan. Da questo momento i talebani controllarono quasi l’85% del territorio afghano.
Dall’insediamento dei talebani nella capitale regnò l’ordine. I nuovi padroni imposero la loro concezione dell’esistenza, conosciuta nelle scuole degli ulema, alla società intera. Svuotarono di significato le istituzioni afghane, sostituendole con tre funzioni: la morale, il commercio e la guerra. L’esercizio della morale venne gestito dall’ “organismo per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio”. Il concetto di male da combattere per i talebani era molto ampio, visto che ogni uomo glabro, o con la barba troppo corta, veniva flagellato, televisori, videoregistratori e musica profana erano proibiti tanto che, nei blocchi stradali, si potevano vedere, appesi ad un palo come trofei, i nastri delle cassette sequestrate agli automobilisti. La seconda funzione del governo dei talebani era il commercio. Essi avevano già potuto beneficiare degli aiuti finanziari dei sauditi poiché, quando i principi della penisola arabica andavano a Kandahar con i loro aerei privati per le loro partite di caccia, lasciavano sempre dei doni alla loro partenza. Sotto il controllo dei talebani i flussi commerciali tra l’Asia centrale e il Pakistan, il contrabbando attraverso il porto franco di Dubai e il traffico di eroina verso i mercati americani, europei e russi aumentarono notevolmente. Infine, l’ultima funzione dei talebani era rappresentata dalla guerra che veniva diretta da Kandahar, dove risiedeva il Comandante dei fedeli, Mullah Omar Akhund, che nessun “empio” poté mai vedere. Questo ex combattente del jihad, che perse un occhio combattendo contro i sovietici, predisponeva offensive contro gruppi ribelli, dando risposta alle pressioni internazionali e, in particolare, confermando l’asilo accordato a Osama bin Laden.
L’Afghanistan divenne il principale serbatoio di combattenti in nome del jihad e, grazie ai talebani, riuscirono ad entrare in esso ingenti capitali finanziari che permisero la diffusione dell’ideologia degli ulema in tutto il mondo. Molti jihadisti afghani, negli anni ’90, lasciarono il loro paese e cercarono asilo nei paesi europei, soprattutto in Gran Bretagna, per ricostruirvi centri di finanziamento, di rifornimento dei combattenti, d’informazione e comunicazione. Londra, ancora scossa dal caso Rushdie, concesse liberamente asilo ai militanti islamici del mondo intero, mentre Parigi, dove le polemiche sul velo islamico nelle scuole avevano avvelenato il dibattito politico, chiudeva le frontiere. La Gran Bretagna divenne il centro nevralgico del movimento. In cambio, l’inviolabilità del territorio britannico venne rispettata. Fu così che gli organizzatori e gli ideologi del governo talebano afghano e i rappresentanti delle altre associazioni islamiste del mondo, a partire dal 1992, si ritrovarono a Londra.
In opposizione alla politica britannica che, negli anni ’90, trasformò Londra nella capitale dell’islamismo mondiale, la Francia restrinse le possibilità di accesso al proprio territorio agli attivisti arabi provenienti dall’estero. Questo atteggiamento da parte del governo francese, però, non riuscì ad evitare gli scontri che si susseguirono a causa della situazione in Algeria, ancora sotto il controllo della Francia. Fino al 1994 le organizzazioni islamiste “francesi” e le reti di sostegno del jihad algerino non ebbero alcun punti di contatto. Ma, nell’agosto di quell’anno, in seguito all’assassinio ad Algeri di cinque funzionari francesi da parte del GIA (gruppo islamico armato), la polizia effettuò una retata. Nel conflitto tra gli islamisti armati e lo Stato francese, quest’ultimo diede un segnale di chiusura e di avvertimento, mostrando che non avrebbe tollerato in alcun modo che la guerra algerina colpisse gli interessi francesi. Lo jihad contro la Francia fu inaugurato da Djamel Zitouni con il sequestro dell’Airbus Air France in partenza da Algeri alla vigilia del Natale 1994, proseguendo con la strage dei monaci di Tibehirina, decapitati il 21 maggio 1996. Otto attentati, tra il 25 luglio e il 17 ottobre, fecero 10 morti e più di 175 feriti. Queste operazioni non furono mai rivendicate dalla GIA ma il provato coinvolgimento negli attentati di persone appartenenti a questa organizzazione, i finanziamenti che essi avevano ricevuto, le dichiarazioni fatte in sede istruttoria da uno dei principali imputati, nel 1999, hanno convinto la maggior parte degli analisti che esse fossero opera della GIA. Queste azioni anticiparono nella modalità e nei mezzi gli attentati dei movimenti islamisti del XXI secolo.
Le immagini sono della Guerra del Golfo del 1990