Nicola Fano
Visto all'Argot di Roma

Girotondo Cechov

La compagnia Macelleria Ettore sta lavorando su Cechov usandolo come un grimaldello (attualissimo) per entrare nella grande recita della nostra autoreferenzialità

C’è un teatro/specchio che riflette la società seduta in platea e uno che si pone come strumento per cambiarla. Così come preferisco il dubbio alla certezza, preferisco il teatro che riflette a quello che vorrebbe farsi atto politico di indirizzo (e che spesso non riesce nemmeno a indirizzare al meglio i processi che ha messo in moto). Sarà l’età, ma mi accontento di spettacoli che ci aiutino a riconoscerci. Meglio ancora se questa riconoscibilità attraversa i tempi, i secoli, i millenni: li chiamano classici per ciò. E maneggiare i classici non è mai stato facile.

È per questa ragione che ho apprezzato uno spettacolo che ho visto la scorsa settimana a Roma, all’Argot (una delle poche isole felici della malandata cultura teatrale romana): si intitola Senza trama e senza finale ed è il passaggio (significativo) di un progetto pluriennale che la compagnia Macelleria Ettore sta realizzando introno a Cechov. Primo appuntamento di questo progetto sarà l’allestimento definitivo dello spettacolo in questione (tratto dai Racconti di Cechov) al prossimo festival di Castiglioncello, ai primi di luglio.

macelleria ettore2Allora, la regista e dramaturg Carmen Giordano ha smontato alcuni racconti cechoviani e li ha inseriti in una specie di girotondo (sì, alla maniera di Schnitzler) nel quale quattro attori (Claudia de Candia, Stefano Pietro Detassis, Maura Pettorruso e Angelo Romagnoli, tutti bravi oltre la media!) si scambiano vite, sguardi, parole e passioni vestendo volta a volta i panni di numerose coppie cechoviane. Dalle loro bocche escono parole spesso smozzicate; i loro gesti sono trattenuti; le loro emozioni sono incompiute. I silenzi e le pause pesano come le parole. Insomma, sono classicissimi personaggi di Cechov, di quelli che vorrebbero vivere ma non riescono a farlo. Tanto che alla fine viene lecito pensare che non vogliano nemmeno vivere, ma solo contemplare e piangere la propria non-vita. Come se il dolore che esce da queste situazioni di coppia fosse una recita sociale eterna e gelidamente immobile (avete presente L’invenzione di Morel di Bioy Casares?). Non inutile ma certamente diabolica.

C’è qualcosa di contemporaneo in tutto questo? Io credo di sì. Credo che molti di noi si viva così: siamo autoreferenziali e ripetitivi, privi di prospettive perché privi di senso. Avvitati nelle convenzioni che foderano il nostro nulla emotivo. Cechov raccontava così la borghesia che stava smarrendo le identità individuali sotto il peso euforizzante delle masse (quelle nei quali i singoli disagi sono destinati ad annegare). Ma, in fondo, oggi siamo ancora lì: solo che non ci sono più individui né masse. (Soltanto egoismi, semmai; ma questo è un altro problema). Sennonché mi è piaciuto il modo in cui Carmen Giordano è riuscita a riflettere la nostra contemporaneità nei bozzetti narrativi di un grande di cent’anni fa. Questo è (dovrebbe essere) il teatro: non si esce cambiati da uno spettacolo, ma si esce un po’ più consapevoli di sé. È una stortura tutta novecentesca pensare di poter incidere sulle coscienze, di offrire risposte perfette: è già molto se si riesce a farsi domande. E questo piccolo Cechov da camera (tutto succede dentro e fuori un tappetino verde, una specie di mini-giardino dei ciliegi, più convenzione teatrale che scenografia) di risposte non ne ha proprio: ci mancherebbe! Semmai, io sono uscito dall’Argot con qualche domanda in più riassumibile in una: ma davvero siamo ancora così?

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