Cartolina dal Portogallo
Colombo, Lisbona
Visita al più moderno (e assurdo) centro commerciale della città. Più che un "non-luogo", uno spazio per mescolare le storie passate e affogare il presente
Dagli ormai lontani giorni del 1974, quando Lisbona e il Portogallo riemersero alla frenetica vita europea ed internazionale, vi è stata una curiosa onda di ritorno dall’antica colonia del Brasile. Naturalmente il Brasile è molto ma molto più che questo (è una terra che, ai suoi vertici, ospita una raffinata cultura umanistica e scientifica, una creatività produttiva sconosciuta a noi europei e perfino un’efficienza infinitamente superiore alle nostre stesse abitudini, specie alle latitudini sud-europee), eppure ciò che è ri-approdato qui del sangue luso lì trapiantato sono stati la Globo di Roberto Marinho e i giganteschi shopping centers. Che ora letteralmente costellano l’antica terra lusa, contendendo gli spazi sociali alle piazze ed alle strade. In Brasile infatti, dopo che una modernità selvaggia ha fatto dappertutto piazza pulita di un meraviglioso e graziosissimo mondo antico post-coloniale, e dopo che la criminalità spicciola ha iniziato a dominare i centri urbani (tomou conta), l’unico posto in cui può esistere una vita sociale pubblica sono proprio gli immensi spazi degli shopping centers. Quanto poi alla Globo, credo che tutti sappiano cos’è: ‒ una gigantesca e tentacolare holding televisivo-politica simil-berlusconiana, il cui principale prodotto sono le telenovelas. Nelle quali si compie giorno dopo giorno il vero e proprio scempio di effettivamente straordinari attori, oltre che, credo, del volto più nobile del Brasile ‒ cosa che personalmente non riuscirò mai a capire!
Ebbene il “Colombo” è proprio uno di questi prodotti di re-importazione ingegneristico-commerciale. Curiosamente i nuovi spazi dell’aeroporto di Lisbona somigliano ad esso come gocce d’acqua. Di certo il suo nome, così impiegato e unito a tutto questo, ferisce una certa sensibilità uditiva italiana. Ma ormai quanto diffusa? Oltre a quanto perpetrato dalle altrettanto atroci opere neo-geometrili che hanno sfigurato dagli anni ’70 in poi il nostro paesaggio, chi può dire che le nostre masse e le nostre élites (dunque il nostro spirito profondo) siano immuni da questa febbre distruttiva di megalomaniaco ultra-moderno deturpante? Non a caso, le nostre periferie urbane hanno conosciuto un del tutto eguale sbocciare lussureggiante di questi autentici “fleurs du mal”. E quindi non è che noi italiani possiamo fare tanto gli schizzinosi sull’imposizione a questo mostro del nome di “Colombo”. Del resto, a parte i diversi legittimi dubbi sull’effettiva paternità colombiana della scoperta delle Americhe, c’è il fatto che (come sottolineato magistralmente dalla biografia di Stefan Zweig su Magellano) le caravelle di allora furono armate per un solo ed unico scopo, e cioè quello di far soldi in abbondanza. Proprio allora, infatti, il capitalismo borghese iniziò ad essere rampante. E da allora non ha mai smesso.
Dunque tutti noi (nord- e sud-europei, gente del Nuovo e del Vecchio mondo) dobbiamo solo abbozzare e starcene zitti, mentre intanto ci troviamo già all’inquietante cospetto.
Dello Shopping Colombo non descriverò l’aspetto esteriore, che è almeno tanto atroce quanto lo è per esempio quello del ben più piccolo centro commerciale di Amoreiras. Nome, anch’esso, ancor più fragrante di antico di quello di Colombo. Dirò solo che per arrivarci abbiamo usato il Metro e siamo scesi ad una stazione recante un nome anch’esso grondante di multiformi assonanze: Colégio Militar/Luz. I suoi muri sono interamente coperti di azulejos in tre toni diversi di azzurro e bianco e gremiti di simboli geometrici. I portoghesi, con il sangue arabo e giudaico che scorre nelle loro vene, sono straordinariamente versati per tutto ciò che è matematico. Quindi posseggono un’intelligenza logica assolutamente poderosa. Ed io, che sono stato sempre un pessimo logico, mi prostro letteralmente ai loro piedi. Altro grande merito da riconoscere a questo grande popolo.
Ma nel ventre del Colombo ci si può ben stupire per le grandiose, quanto gelide e kitsch architetture moderne. Altissime arcate verdi goticizzate e seguite da vetrate che mostrano il passare delle nuvole. Poi la solita immensa cupola centrale sovrastante una babelica piazza a piani sovrapposti in cui si susseguono le vetrine scintillanti e rigurgitanti delle più svariate merci. E proprio come al Sony Center di Berlino, è inevitabile chiedersi se ci si trova in una stazione spaziale orbitante o solo in una improbabile gabbia di matti (da incubo). La risposta sta nel disagio insopprimibile che si può provare se si è quel determinato genere di osservatore del Moderno come io sono. Intanto Lisbona ‒ la città in cui l’ammuffito ma grato olezzo e sembiante del retro ancora comunque si mescola al soverchiante moderno, e dove i lucidi acciottolati bianco-neri (accidenti a loro quando piove, perché lo scivolone è certo!) perennemente dovunque riportano ad un passato che si ostina a non passare ‒ è svanita nel nulla. L’ultima risposta alla domanda di prima è allora la rassegnazione con la quale ci si siede ad una qualsiasi dei varie versioni del MacDonald della tentacolare praça de alimentaçao (nome che ti fa subito passare ogni appetito), e ci si dispone a mangiare un panino guardando in cagnesco chiunque ci passi davanti. Decisamente si finisce per sentirsi un vecchio imbecille extra-terrestre.
Il fatto è che nemmeno qui manca l’acciottolato portoghese, sia pure nel generale antichizzato (segnalato dai nomi onirici delle strade interne: ‒ Rua do Oriente, Praça dos Navegantes…) in cui galleggiano aerei i simboli dei Descobrimentos (sfere armillari, caravelle con la croce sulle vele…) inframmezzati a vari generi di potentissimi richiami sessuali e goderecci. Imitazione ma comunque dominante ed opprimente! Il segno di tale inautenticità sono i vecchi corpulenti seduti a capo chino nell’immensa piazza centrale. I quali guardano il pavimento mentre aspettano le mogli che intanto si aggirano tra lojas di arcinote griffes internazionali. Intanto dalle vetrate si intravvede ruotare vertiginosa una città periferica che potrebbe bene non essere affatto Lisbona, la vecchia Lisbona: le ardite architetture ovalari dello Estadio da Luz accarezzate da highways e circondate da alti parallelepipedi di cemento vetrificato. Mi sorprendo a provare lo stesso cordoglio sempre avvertito in luoghi simili della periferia napoletana, e cioè quello per le non tanto antiche estensioni a perdita d’occhio di cavoli, broccoli, patate e tabacco. Che ora non ci sono più. Anche qui devono essere stati ingoiate dal Moderno.
Che strano sollievo, dunque, quello provato poi di nuovo nel Metro nell’ascoltare la cantilena di un cieco mendicante: Tenha bondade de me auxiliare…!. Insieme ai soliti nauseanti afrori da Underground che in ogni moderna megalopoli fanno da scorie allo scintillio consumista. Chi si è perso qui, io, il mendicante o gli alcolizzati passati da poco da queste parti? È più probabile che sia stato proprio io.
Pensavo di sapere tutto e invece non so nulla. E in fondo poi perché me la prendo tanto? C’è ancora l’altra Lisbona, quella fatta di bettole, caotici negozietti di chincaglierie (con tanto di servente in grembiule di cuoio), anti-diluviane botteghe di barbiere, tetti con gli abbaini, muri scrostati, scalette arrugginite, finestre rasoterra con un ricamo ferreo per parapetto, chiome arboree pendenti dall’orlo dei muri. E cosa significa il fatto che tutto questo c’è ancora? Non lo so, ed è per questo che sono stato io ad essermi perduto. Il Moderno sembra comunque necessario ed inevitabile.
Chissà forse solo la metafisica può risolvere il problema. O forse ancora meglio una robusta mangiata e bevuta da Papaçorda, il ristorante di cui è socio Malkowich. Intanto però me ne torno mesto nella mia caverna. Che in fondo è una fucina metafisica, ma ahimè affatto un buon ristorante.