La kermesse veneziana
Biennale & Impegno
La Biennale Arte, nel nome di Karl Marx, riscopre l'impegno politico contro il mero consumo. Una buona intenzione, sicuramente, che però non corrisponde a una svolta nella produzione
All the world’s Futures. Tutti i futuri del mondo. Un bel dilemma tirare un bilancio di questa cinquantaseiesima edizione della Biennale di Venezia, che con un titolo a così ampio spettro ti sballotta in un frastornante andirivieni tra lo spazio e il tempo, spaesanti contrasti tra estetica e politica, rendendo ancora più incerti i confini già vaghi dell’arte di oggi, figurarsi quelli del mondo. Rappresentati, tra eventi ufficiali e collaterali, da un centinaio di partecipazioni nazionali e da almeno quattrocento autori di diverso passaporto e varie generazioni, ognuno dei quali rivendica, a torto o a ragione, la libertà di essere un mondo a sé. No, neanche la bussola dell’impegno sociale che il curatore nigeriano Okwui Enwezor ci lancia, ricordando il precedente di una Biennale del ’74 capace di cambiare in corso il suo copione per rendere omaggio al Cile caduto sotto la spietata dittatura di Pinochet, sembra una coordinata sufficiente. Altri tempi, il muro di Berlino non era ancora crollato, il mondo era ancora diviso dalla guerra fredda, gli artisti non avevano rinunciato a schierarsi e perso (o ceduto ai critici) la parola.
E non basta neppure l’evocazione del Capitale, come comune invisibile nemico da contrastare. E come testo fondamentale da rileggere, anche alla luce degli errori, delle atrocità, delle forzature ideologiche compiute in nome di Marx. Già, Carlo Marx, convitato di pietra di questa kermesse, che dedica ogni giorno in un teatrino allestito nell’ex sede del Padiglione Italia dei Giardini a una seduta di rivisitazione collettiva di quel leggendario vangelo del socialismo che doveva venire e ha dissipato il suo patrimonio ideale arrivando e andandosene lungo strade sbagliate. Un capitolo dietro l’altro recitato in inglese da una schiera di attori, che si alternano al microfono, davanti a una platea che si ferma qualche minuto a guardare e ascoltare e poi riprende i suoi giri. Come una messa laica, senza però il sigillo finale di una comunione. Perché la comunione, la condivisione della eguaglianza e fratellanza umana non basta enunciarle, bisogna costruirle in modo che facciano presa e non riproducano schiavitù, alienazione, ottusità camuffate sotto altre forme.
A confondere ancor più le idee sono intervenuti anche i premi assegnati dopo la cerimonia del taglio del nastro. Un brutto verdetto a senso unico che ha sacrificato lo spessore dell’arte a favore del suo impatto mediatico, immolato il suo valore d’uso in nome del suo presunto valore di scambio, direbbe il povero Marx. Solo un messaggio politico, una risposta agli altolà e agli ipocriti distinguo negazionisti della Turchia di Erdogan il Leone d’oro al Padiglione Armeno costruito sulla memoria del genocidio con una passerella di opere dignitose ma fiacche. Politica la menzione speciale al collettivo Abounadara, un gruppo di controinformazione che documenta e mette in rete con grande coraggio film e foto della Siria sconvolta dalla guerra civile: il buon giornalismo confuso con l’arte. Più motivato ma politico, un oscar alla sua complessa biografia, il Leone d’oro all’americana di colore Adrian Piper, 68 anni, artista concettuale, prima donna afroamericana ad aver ottenuto una cattedra universitaria di filosofia negli Usa , che vive esule in Germania per sfuggire e denunciare le discriminazioni che ha subito. A Venezia presenta un ciclo di opere sul senso di sottrazione di chi ha imparato sulla sua pelle che ogni cosa può esserti portata via: come una punizione scolastica mette in fila su una lavagna la frase «Everything will be taken away», e la ripete sullo schermo di un computer e sul volto di un uomo cui ha cancellato i lineamenti. Una prova d’autore senza dubbio. Ma perché la migliore?
Non ci rimandano forse con più intensità, maggiore ricchezza di ambiguità e sfumature lo stesso messaggio di sofferenza, minaccia, sottrazione d’identità le quattro figure appese a testa in giù di George Baselitz che ti aggrediscono come un pugno allo stomaco lungo il percorso dell’Arsenale? Un suo vecchio motivo; che l’ultraottantenne maestro tedesco ha rielaborato con pennellate più cupe e pastose, che riducono le facce ad una poltiglia, ritraendo quei corpi capovolti in bilico su una sorta di palude melmosa.
Eppure nonostante queste irritanti forzature due effetti positivi il richiamo all’impegno e alla condivisione dei valori umani di Okwui Enwezor, amplificato da un uso massiccio della musica e delle perfomances nel cartellone degli eventi di contorno, sembra comunque produrli. Libera il campo dagli irriducibili imitatori dell’arte pop, dai fabbricanti di cascame che infestavano molte biennali precedenti, diminuisce il peso di opere trash che prima incontravi ad ogni angolo. E moltiplica le immagini, le voci di chi vive ai margini della pervasiva mitologia del benessere e del profitto. Una sterzata che magari col tempo, se anche il mercato sposasse questa linea di tendenza, potrebbe produrre effetti benefici, dischiudere agli artisti orizzonti meno angusti e autoreferenziali. Aprire i loro occhi alla ricchezza delle differenze, le loro abitudini di vita e di sguardi al nomadismo e al viaggio, il loro cuore alle emozioni e allo sdegno, condurre la loro testa oltre la rassicurante geometria del meccano concettuale, in cui spesso molti cercano riparo, verso la complessità e la profondità. In tanti hanno rinunciato in partenza: ma allora perché invitarli? Qualcuno in questa sterminata mostra sulla Laguna ci ha provato. Qualcuno c’è riuscito. Scansando toni e scelte da proclama o da manifesto, soluzioni banali e già viste, per parlarci del domani e dell’oggi con voce ed enigmi da Sibilla, che aiutano se non a trovare risposte almeno a formulare domande.
Mi limito a segnalare qui tre autori. Una sorta di controclassifica. Per prima una filmaker cinese under quaranta che vive a Pechino ed ha fatto una comparsata anche al Maxxi. Si chiama Cao Fei. Presenta un’opera che ha intitolato con intrigante miscela di lingue «La Town» (nella foto accanto). Per raccontarci il giorno dopo una sconvolgente catastrofe, su cui non si sofferma in spiegazioni, ha costruito e usato come set una serie di teatrini, di cui espone alcuni modelli in vetrina. Esterni in miniatura di una città semidistrutta: palazzi e spazi in rovina, accanto ad altri rimasti intatti, strade invase di macerie, morti, macchine rovesciate. Poi ha riempito ogni scena di pupazzi che usa, traveste e muove da attori. E ha cominciato a filmare con zoomate rapidissime, giochi di montaggio e dissolvenze che quasi cancellano ogni apparenza di posticcio. Ti accorgi subito che oltre ai danni il disastro scatena altre conseguenze. Contrappone sequenze di disordine ad altre di spiazzante normalità. Genera mostri e devianti: poliziotti che taglieggiano e sparano ai sopravvissuti, banditi che li assalgono, feriti che si rialzano come zombie. Libera fantasie suggestive e inquietanti: un cammello che si affaccia al terrazzo, due tigri che puntano come prede un gruppo di bambini che giocano su una giostra. Ma – effetto anche più devastante – abbatte le cancellate del tempo, ti trascina in un eterno presente di apparizioni e ritorni: ecco un dittatore vestito alla Mao che arriva alla stazione, accolto dalla fanfara di una banda, tiene un comizio, poi, trascinato dai suoi funzionari si trastulla in giochi proibiti in un bordello. Un fantasma di ieri? La proiezione di un domani possibile? A far da colonna sonora il dialogo distaccato di due amanti, tratto da un mitico film di Resnais, Hiroshima mon amour. Insomma una allucinata metafora del caos in cui tutti noi galleggiamo.
Il secondo autore è un giapponese che vive a Berlino, Chiaru Shiota. Ha cosparso il padiglione del suo paese di chiavi, a ogni chiave è allacciato un filo rosso appeso al soffitto. Una giungla di fili rossi che avvolge due barche (nella foto). Quale chiave scegliere per dipanare il groviglio, mettere in mare quelle scialuppe e partire?
Il terzo autore è un olandese, Herman De Vries. Gira il mondo, studia e ruba ai paesaggi che attraversa segni, forme e colori che poi rimodella in opere d’arte. Un magnifico colpo d’ala la parete che ha costellato di tasselli dipinti, usando come impasto cromatico le terre di tutti i paesi che ha visitato. Siamo nel territorio della poesia. Chi ha detto che la rivoluzione non possa partire da lì?