Fa male lo sport
Zeman, l’eretico
Elogio (moderato) di Zdenek Zeman, detto il Muto; che quando ha parlato ha detto molte brutte verità sul calcio. E che ha anche pagato. Ma prima ha cercato di far divertire il pubblico a suon di gol, come gli diceva di fare la sua filosofia
Chissà se ora, con il Cagliari in ritiro forzato per il volere della società, starà giocando a carte. O a golf, il suo ultimo passatempo. Perché Zdenek Zeman ha sempre sostenuto che un bel tressette farebbe molto bene ai calciatori troppo impegnati con videogiochi e social network. «Meglio una sana partita a carte. Ma molti club le vietano. Se non ci sono soldi in ballo, che male c’è? Poi succede che i giocatori puntano i soldi su altre cose, il che è anche peggio… Una volta stavano sempre insieme. Adesso non fai in tempo a chiudere l’allenamento, che uno scappa a destra, un altro a sinistra… Dovrebbero conoscersi meglio e parlarsi, invece si mettono le cuffie, si chiudono in camera e vanno su Facebook».
Ci vorrà una bella mano vincente al boemo – arrivato in Italia nel lontano ’68 – per salvare dalla serie B la squadra che fu di Gigi Riva e che 45 anni fa vinceva uno storico scudetto. Dovesse andargli male, l’AZ, il partito AntiZeman, rialzerebbe la cresta: è un bluff, un perdente nato, un incapace, come lo ha definito spesso Luciano Moggi, uno che non sa difendere, un talebano della zona e del 4-3-3, manicheo nella vita e nel gioco. Perché Zeman è, paradossalmente, come la Juve, la sua “nemica”: o lo ami o lo detesti. Non ci sono mezze misure. E con gli anni – a maggio ne compirà 68 – non è che sia molto cambiato.
Partendo dal 1983, quando prese in mano il Licata in serie C portandolo nella stagione ’84-’85 in serie B cominciando così a farsi notare, Zeman ha allenato una quindicina di squadre nell’arco di 32 anni. Tante, troppe. Dal Foggia (tre volte) alla Roma (due volte), dal Fenerbahce alla Stella Rossa di Belgrado (pochi mesi su entrambe le panchine), dal Napoli (esonerato già alla sesta giornata) al Pescara, dalla Salernitana all’Avellino, dal Lecce alla Lazio. La cosa migliore la fece proprio con i biancocelesti ai tempi di Cragnotti: campionato 1994-95, Lazio seconda dietro la Juve, 63 punti in classifica, a dieci di distacco dai bianconeri (come il Parma), 69 gol fatti, 34 subiti. Il miglior piazzamento in serie A di una squadra diretta dal biondo ceko.
Zeman, il Muto. Così lo chiamavano a Foggia là dove nacque Zemanlandia, un luogo ideale per divertirsi vedendo una squadra giocare con il pallone di cuoio. Erano i primi anni Novanta e il calcio era ancora una rappresentazione sacra: c’era 90° Minuto in tv, il programma cult del pomeriggio della domenica, quando in tutti gli stadi la palla al centro si metteva alle ore 14,30 e il montepremi del Totocalcio poteva raggiungere e superare i 30 miliardi di lire. «Benvenuti a Zemanlandia…» esordiva quasi sempre Beppe Capano, l’enfatico cantore televisivo dallo Zaccheria, lo stadio delle imprese della banda del Muto. Ciccio Baiano al centro, Roberto Rambaudi a destra, Beppe Signori a sinistra. Erano le bocche di fuoco di una batteria infernale che vedeva anche difensori e centrocampisti fare tanto pressing e un grande movimento. E spesso andare in gol. Era il 4-3-3, il modulo magico, sempre lo stesso, una formula esistenziale. Gli interpreti si chiamavano Codispoti, Matrecano, Padalino, Petrescu, Shalimov, Kolyvanov. Tutti gli uomini di Zeman, dai titolari alla più anonima riserva sapevano che cosa fare: correre innanzitutto, verticalizzare il gioco, accamparsi nella metà campo avversaria e attaccare, sempre, ovunque. Quattro difensori in linea, tre centrocampisti, vale a dire un centrale e due intermedi e tre attaccanti, anche qui un centrale e due esterni. Era il circo equestre.
«Presidente, io prenderei quel Zeman…». «Ma ch’avimma fa? ’O circo equestre?». Il gioco di Zeman come un circo: era scettico Pasquale Casillo – che esportava grano in tutto il mondo e si era tolto lo sfizio di comprarsi il Foggia prima che un pentito dicesse ai magistrati che il re del grano se la faceva con i camorristi: fu messo per un po’ in galera ma dopo 13 anni altri magistrati lo assolsero – e lo diceva a Peppino Pavone, abile ed esperto direttore sportivo dei cosiddetti satanelli, come venivano chiamati alla maniera antica quelli in maglia rossonera a strisce sottili. Invece di piantare il tendone da circo, iniziò il film sulla favola del Foggia. Con riti propiziatori (la caramella di un tifoso prima dell’inizio del match), la sigaretta tra le labbra e le nuvole di fumo, le lunghe trasferte in pullman in cui il ceko si metteva sui sedili in fondo in mezzo alla truppa quasi a voler sottolineare come lui fosse uno di loro. Con allenamenti duri, faticosissimi (addominali, ripetute e gradoni dello stadio per abituare i giocatori alla fatica). Con l’alimentazione controllata e spartana. Rambaudi raccontò in più occasioni di quell’episodio di Codispoti. Il difensore vomitò dopo un esercizio particolarmente faticoso: «Zeman gli disse di riprendere a correre perché ormai aveva già vomitato». Con risultati vistosi e allegri anche quando si prendevano 8 gol dal Milan di Capello.
Mandare la palla in rete, divertire la gente. «Quando da piccoli si inizia a giocare a pallone, si pensa subito a correre e a fare gol. Nessuno si avvicina al calcio pensando a difendersi…». Al Fatto Quotidiano un giorno disse: «La mia unica regola è lavorare per far divertire il pubblico». E con Giuseppe Sansonna, che su di lui ha realizzato un docufilm che non poteva non titolarsi Zemanlandia, sostenne: «Se si gioca soltanto per il risultato, senza tener conto del pubblico, è meglio giocare a porte chiuse. Poi si può dare il risultato al pubblico più tardi, magari con un comunicato stampa» (da Zeman, un marziano a Roma dello stesso Sansonna).
Si elettrizzavano quelli che vedevano il Foggia: quel calcio era l’utopia che diventava realtà. Erano i tempi in cui la zona era il verbo. Sacchi era il profeta. Zeman era il cultore di quel tipo di gioco ma con una visione del campo tutta sua, un qualcosa che nel calcio piatto e tutto uguale di oggi appare anacronistica e perdente. Invece per quel Foggia si sprecavano gli elogi e l’ammirazione. Lui divenne un personaggio. Antonio Albanese lo celebrava attraverso Frengo e Stop (nella foto accanto), surreale cronista ultrà foggiano di Mai dire gol. Quello del «bicause» e della «palla che prendeva ’a cumplanare…» ad ogni giocata di Signori & Co. Antonello Venditti, qualche anno più tardi, gli dedicò un brano, molto brutto in verità come il titolo, La coscienza di Zeman.
Dopo Foggia si sono appassionati e lucidati gli occhi i tifosi romani, di Lazio e Roma, la città che, con Foggia, più gli è rimasta attaccata. Tant’è che quando nel 2012, dopo tredici anni di esilio dal grande calcio, riprese in mano la squadra giallorossa, dopo i tempi della quaresima di Luis Enrique, il popolo giallorosso impazzì. Ma durò poco, fu un mezzo fallimento, ancora, con una grande squadra: a febbraio 2013 venne licenziato. Il popolo romanista si divise. Solo un anno prima era stato osannato per via del Pescara, portato di volata in serie A dopo 19 anni tra i tornei meno nobili, un’altra delle sue imprese impossibili: primo posto nel campionato di serie B, 90 gol segnati, 55 subiti. Il Pescara è stato il suo nuovo Foggia a tanti anni di distanza. Gioco spettacolare, valanghe di gol e una nidiata di ragazzi che abbiamo imparato a conoscere bene: Verratti, Insigne, Immobile. Zeman, il pezzo di ghiaccio, nell’ultima partita a Genova contro la Samp si sciolse. Quella espressione dura, imperturbabile, quella faccia da Sergio Leone («A Praga la mia maestra mi diceva che dovevo fare cinema»), venne solcata dalle lacrime. A marzo era morto all’improvviso uno dei suoi più fedeli scudieri, Franco Mancini, portierone del Foggia dei miracoli e suo collaboratore nel club abruzzese. «Franco doveva essere qui a festeggiare con noi» (da Maledetto Zeman di Andrea Corti, Editori Internazionali Riuniti). Capace di far luccicare i piccoli club di provincia e scopritore di talenti. Provate a veder quanti giovani gli sono passati tra le mani e sono diventati famosi. Non solo quelli del Foggia, da Signori a Di Biagio, ma anche, per citarne solo alcuni, Nesta, Di Matteo e Nedved (Lazio), lo stesso Totti che è diventato un campione sotto di lui, Di Francesco, Tommasi.
Il Muto, in realtà, parla eccome. Zeman ha sollevato i veli sulle porcherie del calcio moderno, ha accusato, ha denunciato. Non solo i muscoli gonfiati, ma anche quelli che lui chiama «gli uffici finanziari», contro il doping amministrativo. Isolato, osteggiato, embargato: il boemo forse ha pagato la sua voglia di pulizia. Ma aveva ragione lui, visto come sono finite certe storie. Il Parma è questione di oggi (ma già con il crac della Parmalat finì sull’orlo del baratro). Negli anni passati Lazio, Fiorentina e Napoli e la stessa Roma sono società salvate con operazioni disinvolte e spregiudicate. Scrivono Massimiliano Palombella e Francesca Spaziani Testa in Zemanologia (edito da ultra sport): «…Ma le parole pronunciate dal boemo a partire dall’estate 1998 rivelano molto più dell’animo romantico di un uomo restio a interpretare il pallone come un’industria. Quando Zeman dice che “il calcio deve uscire dagli uffici finanziari”, la sua voce è una voce fuori dal coro negli anni del calciomercato stramiliardario, dei prezzi gonfiati e delle plusvalenze. Una grande euforia collettiva ha appena accompagnato la quotazione in Borsa della Lazio…». E dopo la Lazio, a Piazza Affari arrivarono la Roma e la Juve. Per i grandi club si è mossa la politica: la legge spalmadebiti, il Lodo Petrucci. Provvedimenti che misero una pezza su una situazione disastrosa e via via sempre più insostenibile.
Quando stava in esilio, lontano dai grandi palcoscenici, Zeman disse: «…Bisogna chiedere alle società perché non mi vogliono. Sicuramente sono un personaggio scomodo. Oggi dicono che un allenatore deve essere innanzitutto un gestore di giocatori e non un maestro di calcio. Non è questa la mia visione delle cose. Purtroppo le mie dichiarazioni del ’98, oltre a qualche scudetto con Roma e Lazio, le ho pagate a caro prezzo per la mia carriera…». Che cosa aveva, dunque, detto Zeman, nel ’98? «Vorrei che il calcio uscisse dalle farmacie e dagli uffici finanziari. Vorrei che rimanesse solo sport e divertimento. Io come allenatore mi rifiuto di pensare che invece di far fare due giri di campo, a un giocatore dò una pillola. Questo mi ripugna». E di fronte alla reazione della Juve che lui non accusò nelle prime interviste, esplose parlando con l’Espresso: «Si è chiamata in causa da sola… È uno sbalordimento che comincia con Gianluca Vialli e arriva fino ad Alessandro Del Piero. Io che ho praticato diversi sport pensavo che certi risultati si potessero ottenere solo con il culturismo, dopo anni e anni di lavoro specifico».
Fu lo scoppio della grande guerra: lo scandalo doping. Moggi, Lippi e Giraudo da una parte, Zeman dall’altra. Vialli lo apostrofò così: «Un terrorista e un paraculo…». Gianni Agnelli commentò caustico: «Zeman è il nipote di Vycpàlek che noi abbiamo salvato dalla Cecoslovacchia comunista e portato in Italia. Quindi anche il nipote ci deve gratitudine». Il nipote del vecchio Cesto – giocatore e allenatore bianconero biscudettato dei primi anni Settanta – fu invece un ingrato e non cedette. Anzi è stato sempre convinto di essere stato boicottato: «Nel ’98 la Roma perse più di venti punti per sviste arbitrali. Sensi mi mandò via perché subì delle pressioni. A Napoli Ferlaino mi licenziò dopo appena sei giornate. Lo stesso presidente disse che ero stato chiamato a Napoli per volontà di Moggi e che esisteva un progetto per distruggermi. C’è stato un lungo periodo in cui sono stato contattato da tanti presidenti, anche di squadre importanti. Solo che un giorno mi cercavano e volevano parlare con me. Il giorno dopo cambiavano idea. Evidentemente un certo sistema ha prodotto una reazione quando ho cominciato a denunciare le cose che non andavano». Moggi gli rispose: «Ha detto un cumulo di falsità, l’ho denunciato, la verità è che non sa allenare». Zeman è rimasto della sua idea, convinto che gliel’hanno fatta pagare. Forse questo non basta a giustificare stagioni sfortunate e progetti falliti, ma i sospetti dell’eretico del calcio non sono del tutto infondati.