Due opere di Angelo Scandurra
Una poesia ci salverà
La necessità del dire come strategia di vita. L'attività del poeta ed editore siciliano lo rivela in ogni sua manifestazione: nella straordinaria qualità della produzione editoriale, nel testo teatrale che è un atto di accusa contro il dio Denaro, nel connubio artistico con il pittore Franco Corradini
Il più delle volte ci si arresta sulla soglia della complessa mappa letteraria italiana, raccontata prevalentemente per consolidati nomi, del presente e del passato, per grandi e conclamate case editrici, per eventi romani o milanesi, senza scorgere la forza di certi autori, o lʼeroico impegno di certa editoria ʻminoreʼ e neppure si dice dei generosi slanci e delle significative iniziative che pullulano nella provincia italiana. Alcuni esempi ci vengono dalla Sicilia, precisamente da Catania, certo una grande città ma pur sempre provincia culturale, dove è sorto un Centro di poesia contemporanea per opera di poeti più o meno giovani (Pietro Russo, Pietro Cagni, Naike La Biunda, Paolo Lisi, Giuseppe Condorelli, ecc.), in accordo con la locale Università, e nasce una nuova casa editrice, Algra, che pubblica lavori di Roberto Mussapi e Maurizio Cucchi, oltre che autori di quella terra. Splende poi la ricca attività di Angelo Scandurra. Di questa rara figura di poeta ed editore, di cui escono ora due libretti, vogliamo parlare.
Partiamo dallo Scandurra editore, anche se è bene puntualizzare subito che non si può scindere la figura del poeta da quella dellʼeditore, perché sicuramente sono aspetti dello stesso sentire. Ebbene, la casa editrice Il Girasole, oggi trasformata in Le Farfalle, non è una delle tante piccole meritorie case editrici che hanno operato in Italia, con pubblicazioni più o meno qualificate. Il Girasole è un eccezionale esempio di editrice che annovera autori straordinari, scelte intelligenti, una qualità estetica del libro quasi unica. Dalle poesie di Goliarda Sapienza ai pensieri e ai racconti di Manlio Sgalambro, alle lettere tra Muscetta e Pavese, tra Muscetta e Gatto e tra Muscetta e Scotellaro, ai racconti di Carlo Levi, a Giampaolo Rugarli, al poeta siciliano Sebastiano Burgaretta, al poeta spagnolo José Ángel Valente, a LʼItalia sepolta sotto la neve di Roberto Roversi, i grandi scrittori che hanno ʻmilitatoʼ nella schiera de Il Girasole sono veramente tanti. Libri di preziosa fattura, con carta e copertina tirate a mano, con le pagine ancora attaccate, che pare quasi un sacrilegio andare a dividere. Parliamo, come è evidente, non di un editore qualsiasi, ma di un poeta editore che ama il libro e ne fa un oggetto raffinato, oserei dire sacro, perché Scandurra concepisce il libro come qualcosa di irripetibile e lo tratta con amore profondo, dedicando a ogni volume che passa dalla sua ʻbottega poeticaʼ, la propria esistenza, fatta inevitabilmente di difficoltà enormi e di parziali riconoscimenti, per quanto sia fisso nel cuore e nella mente di chi i libri li ama davvero.
Angelo Scandurra, ha fatto pure il sindaco, nel piccolo comune catanese di Valverde, e sappiamo che anche in quel passaggio ha dedicato la sua coerenza morale e artistica a donare squarci di equità e di bellezza, cioè qualcosa che la vita amministrativa dovrebbe riservare sempre ai propri cittadini, anziché forzatamente imporre e subire le carte scritte dallʼalto, e certo quella fu una primavera socio-culturale per i suoi concittadini. Una traccia di quellʼopera, la visione pubblica, ʻpoliticaʼ, di Angelo Scandurra crediamo di poterla rintracciare anche leggendo il bel testo teatrale: Titoli senza valore. La scrittura drammaturgica pensiamo sia nelle corde di Scandurra, che mantiene pur tuttavia un ancoraggio alla sua ʻnaturaʼ poetica, ma è evidente anche che la forma teatrale gli permette di superare la tirannia della sintesi tipica della poesia, con la possibilità di argomentare lʼincalzante, tumultuoso pensiero. Lʼautore ci avvisa nella nota iniziale che essendo ormai tutti noi «peccatori trionfanti», non sappiamo che «consumare persino la nostra memoria e le nostre radici. Ci spelliamo le carni e le coscienze per impossessarci di tutto nel nome di tutto… dimentichi che siamo nutriti di fragilità… mangiati dal tempo… viaggiando sul palmo della morte».
Il testo, che Scandurra ha scritto per un teatro di Catania è un atto dʼaccusa contro la società che pone al centro del “sistema astronomico” il Denaro, al posto del sole, con la figura del poeta cieco che cerca, attraverso una parola poetica ormai emarginata o comunque figlia di un “dio minore”, di riscattare questa deriva ormai vissuta come quotidianità, e che in un estremo moto ribellistico, afferma: «Io sono stato educato alla parsimonia, al risparmio, al rispetto dellʼumanità, della natura, mi hanno insegnato che lʼamore è la forza dellʼuniverso, che il denaro non serve». E rivendica la necessità almeno «di comprare una mano, una mano capace di carezze», solo questo forse è sufficiente, come potrebbe dire un folle incamminato nel vuoto del proprio grido a cui il supremo Presidente, che è seduto su un mappamondo a forma di salvadanaio, come fosse su un trono, nel massimo della sfida e dellʼingordigia, gli lancia il suo ultimo definitivo messaggio: «col denaro io chiudo nella cassaforte tutto, anche il tempo». Ma quel tempo e la grazia del racconto sono per il poeta qualcosa di irrinunciabile e non ci sarà Presidente che potrà acquietare il vento segnato dalla forza della parola.
Scandurra pur avvertendo, e vivendo, lo status di debolezza dello scrittore, fa della necessità del dire una strategia di vita, e ripone nella forza della poesia quel non cedere al nichilismo, al vuoto. Questo ʻfareʼ poetante emerge con chiarezza anche nella ʻgiostraʼ dai mille colori fissata nel libro Fabulae (Le Farfalle editore), dove cʼè un sodalizio con un pittore di sicuro rilievo, Franco Corradini. Qui quindici quadri sono ʻaccompagnatiʼ da altrettante poesie edite di Scandurra, anzi, quindici poesie sono interpretate dal pittore, operazione senzʼaltro delicata, perché si sa come sia arduo abbinare due arti che vivono di linguaggi propri. Ma la penna di Angelo Scandurra si cala nellʼalveo del racconto pittorico come in un suo stato naturale, e anzi i versi si esaltano nel difficile dialogo, perché nonostante sia il pittore che segue i versi, in fondo pare che il poeta abbia “atteso” il suo interprete pittorico, senza peraltro che le catene della obbligata conseguenzialità siano un coacervo paralizzante di idiomi, perché le due arti sanno andare nella direzione più appropriata, cioè seguire il corso naturale della propria creatività, esprimendo la massima e necessaria espressione senza limiti. Le parole di Scandurra non diventano quindi una didascalia, una titolazione, ma semplicemente suggestioni che il pittore ha saputo mettere nel movimento delle sue pitture. Il segreto di un connubio, il mistero di un connubio, che ci pare annunciato, tempo prima che si realizzasse, in questi versi: «nel giaciglio dei profumi/ lʼebbrezza dellʼabisso/ annuncia estesi sodalizi/ inclina ogni volo; fronteggia il caos/ e voci cigolanti».