Dal 9 maggio parte la kermesse veneziana
Rivoluzione Enwezor
Dall'elogio di Karl Marx alla denuncia del regime di Fidel Casto; da Boltanski a Marlene Duma, da Fabio Mauri a Georgia Baselitz: è la prossima Biennale Arte di Okwui Enwezor
Capitolo primo, ILLUMination: la conoscenza intuitiva e il pensiero illuminato quali mezzi per affinare la percezione. Secondo, Il Palazzo Enciclopedico, la creazione artistica nella sua genesi primaria, le forze interiori che spingono l’uomo e l’artista a dare vita a rappresentazioni. Firmati Bice Curiger (2011) e Massimiliano Gioni (2013), punti di vista diversi, unico comune denominatore la ricerca di riferimenti utili per formulare giudizi estetici sull’arte contemporanea; questione critica, sottolinea Paolo Baratta, dopo la fine delle avanguardie e dell’arte non arte. Ora, il presidente della Biennale di Venezia numero 56, un bagaglio di ricordi e di esperienze di 120 anni di vita ed un cammino tutto da tracciare, chiama Okwui Enwezor a scrivere il terzo atto: il rapporto tra l’arte e lo sviluppo della realtà umana, sociale e politica nell’incalzare di forze e di fenomeni esterni. Titolo-manifesto di un progetto ambizioso e multiforme è All the World’s Futures.
Sarà utopia, ma ciò che convince è il volere, in quest’epoca tempestosa di gravi fratture e lacerazioni, in questa “age of anxiety” senza bussole né direzioni, immaginare tutti i futuri del mondo. E il cinquantunenne critico nigeriano, sensibile esploratore di mondi vicini e lontani, una lunga esperienza internazionale e il fiore all’occhiello di documenta 2002, pone al centro della «tempesta” di energie» che travolgerà la Laguna dal 9 maggio e per sette mesi (un anticipo di un mese per «giocare in tandem con l’Expo di Milano») l’arte a confronto con la complessità sociale, geografica e globale di una modernità instabile e inquieta: uno stato delle cose da «costruire, decostruire e ricostruire». Frantumando frontiere e confini, ognuno con la propria storia, i propri desideri, i propri moti dell’animo, il proprio linguaggio ma in un’arena delle idee comune e condivisa.
Immagina, Enwezor (nella foto accanto), un pluralismo di voci, gli artisti come assemblea costituente di un “Parlamento delle Forme”, un luogo di libero dialogo dove, trascinandosi le rovine del passato, si provi a costruire il futuro. Non vuole ergersi a legislatore né profeta, non teorizza cadute o salvezza dell’arte contemporanea, indica solo la strada percorribile in un viaggio bello e terribile come l’Angelus Novus di Paul Klee, interpretato da Benjamin in chiave allegorica: il volto rivolto al passato, le ali distese, sospinto irresistibilmente nel futuro, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Il critico-pensatore, che finora ci ha piacevolmente spiazzato con le sue rassegne-contaminazioni, promette: «In questa Biennale di intensa e varia vitalità non avremo pace, ogni giorno non sarà uguale all’altro nell’urgenza di coinvolgere il pubblico fisicamente ed emotivamente». L’arte scende di nuovo tra la gente, non ci sono più spettatori di un palcoscenico manovrato dai burattinai della cultura business, bensì tutti attori della rivoluzione Enwezor: una serie di eventi declinati secondo la variegata sfaccettatura del fare artistico – pittura, scultura, scrittura, danza, musica, cinema, teatro – che si sovrapporranno in una sola narrazione. Perché, spiega, «questa Biennale è un organismo vivente alla ricerca di forma o di forme per rendere visibile la storia o le nostre storie che la raccontano a frammenti, trascinandosi le rovine del passato e aspirando a un domani possibile».
Impossibile elencare l’ampio cartellone. Proviamo, comunque, a dare qualche numero e ad entrare nell’Okwuipensiero. Che, in primo luogo, riporta l’Esposizione internazionale d’arte, lo spirito primigenio della Biennale, nei Giardini, lo spazio storico dove si tenne la “prima” del 1895 quando i padiglioni nazionali ancora non esistevamo. Accanto ci sarà la rosa di appuntamenti dislocati lungo la Laguna, dal Palazzo delle Esposizioni agli stessi Giardini, dall’Arsenale ai monumenti, molti anche segreti, della città dei Dogi. La grande adunata dei creativi del pianeta vede 136 artisti, ottantanove al debutto, provenienti da 53 Paesi con la new entry di Grenada, Mauritius, Mongolia, Repubblica del Mozambico, Repubblica delle Seychelles, il ritorno di Ecuador, Filippine e Guatemala e la Santa Sede alla sua seconda volta dopo il battesimo del 2013 . Ben 159 i nuovi lavori, 44 gli eventi collaterali.
Okwui Enwezor non assegna codici, ci prova, invece, Vincenzo Trione, curatore del Padiglione Italia (clicca qui per leggere l’articolo di Danilo Maestosi). Messi da parte i convenzionali modelli espositivi, permea il canovaccio di All the World’s Futures attraverso uno strato di filtri, una costellazione di parametri che circoscrivono le molteplici idee e la diversità di pratiche. Insomma, sarà il direttore d’orchestra di una partitura in progress scritta a più mani, di una kermesse visiva, corporea, uditiva e narrativa; una drammatizzazione che scuoterà corpi e menti. Tre i leit-motiv: “Vitalità: sulla durata epica”, “Il giardino del disordine” e “Il Capitale: una lettura dal vivo”. L’arte dello spazio e del tempo si sommano con la proposizione di opere che esistono già e contributi che saranno realizzati ad hoc. «Non importa – avverte Enwezor – se le opere siano nuove o vecchie, fatte in situ o pensate tanto tempo fa. Né mi interessa la distinzione tra giovani e non. Quel che conta è il frangente, l’immediato, le rovine pronte a sollevarsi per diventare futuro. Mi interessa l’intraprendenza come la vedo, per esempio in Fabio Mauri».
L’italiano è tra i pochi a rappresentare il tricolore nella squadra internazionale messa in piedi da capitan Okwui; evocherà il Pasolini di “Guinea” in quel lavoro che li vide affiancati sul tema «Cos’è il fascismo». Il poker d’assi comprende anche Pino Pascali, Monica Bonvicini e Rosa Barba. Nella chiamata agli artisti ci sono, poi, grandi come Georgia Baselitz, Christian Boltanski e Marlene Duma; il ritorno di altri che hanno lasciato il segno nelle ultime edizioni come Allora & Calzadilla o di chi ha saputo conquistare l’olimpo hollywoodiano come il premio Oscar Steve McQeen. Nel percorso di celluloide in cui inciamperemo, trasportati dal caso, ci saranno, inoltre, capolavori di Harun Farocki e di Chris Marker. Ad accoglierci nel Padiglione centrale saranno gigantesche non sculture inserite in aree strategiche dei due giardini fino ad irrompere nelle Gaggiandre con la monumentale installazione di Xu Bing.
Ma il cuore pulsante, rosso come il sangue, è l’Arena, concepita dall’architetto ghanese-britannico David Adjaye come un anfiteatro con gradoni, schermi al plasma alle pareti e pianoforti a coda al centro. Sarà il luogo della parola, del canto, delle proiezioni, il foro di collaborazioni e discussioni. Il rito sikh dell’Akhand Path (recitazione ininterrotta del libro sacro con l’alternarsi di più lettori in più giorni) si fa laico, epico e necessario nel momento più esaltante di questa Biennale 2015: con la regia di Isaac Julien, Das Kapital – «un’opera classica di analisi economica e sociale che non potrebbe essere più pertinente nel nostro tempo» – sarà letto da attori, come un testo drammaturgico, ininterrottamente dal 6 maggio al 22 novembre. Suoni e voci, Il Capitale sarà un oratorio sfaccettato di performance estetico-etiche, esaltanti, malinconiche, tragiche ed eroiche: canti di prigionia e di lavoro, sull’ingiustizia sociale e sulle guerre. Su tutti, la bellissima reinterpretazione di Olaf Nicolai della composizione Un volto e del mare/Non consumiamo Marx” di Luigi Nono.
Irrompe il cinema, quello “d’emergenza”, ogni venerdì una selezione di film e nuove pellicole del Collettivo (anonimo) di cineasti siriani Abounaddara. Suggestioni multisensoriali: i neon di Bruce Nauman scandiscono le parole, il coro, scivola verso l’Arsenale, nel tempo curvo dell’orologiaio Enwezor. Si posa su La Creazione di Haydn riarrangiata, invertita e rovesciata nel progetto In the Midst of Things, di Jennifer Allora e Guillermo Calzadilla. Si fa denuncia nella performance e video installazione Unitled di Tania Brughera che riflette sulla intenzionale cecità e contraddizioni del regime di Fidel Castro. Censurata, l’artista ancora agli arresti domiciliari all’Havana. Disastri ambientali, il dramma dei migranti, l’economia in crisi, i conflitti, la caduta delle ideologie e la falsa democrazia: che dire, sarà un happening, ma ci piace questa Biennale fortemente intrisa di politica, ci piace l’arte che finalmente torna ad interrogarsi e ad interrogare, ci piace fermarci a riflettere sulla catastrofe per aprire le ali in volo verso la speranza, lasciandoci alle spalle i detriti di un passato-presente marcio che ci fa paura.