Erminia Pellecchia
Due esposizioni da non perdere

Monumentale Chagall

Dopo la grande mostra di Milano, anche Roma e Cava de' Tirreni rendono omaggio al grande pittore visionario. Quasi fino a renderlo il maestro pop del Terzo Millennio

Si è conclusa, col record di 340mila ingressi, la grande retrospettiva che Palazzo Reale di Milano ha dedicato a Marc Chagall (1887-1985) ed ecco che, sul fil rouge della curatrice, Claudia Zevi, di riscoprire l’uomo e l’artista oltre l’immagine edulcorata e stereotipata e così nascono due mostre camei inaugurate in questi giorni a distanza ravvicinata: Love and Life al romano Chiostro del Bramante (fino al 26 luglio), e Segni e colori dell’anima al Marte di Cava de’ Tirreni (fino al 28 giugno). Un comune denominatore: la rappresentazione di uno Chagall più intimo ma parimenti efficace attraverso la cifra, meno conosciuta, della sua esperienza grafica. Pratica a torto considerata minore, ma che mette a fuoco, invece, l’universo problematico e complesso di chi ha dovuto fare i conti con un mondo scosso da catastrofi e con le proprie dolorose vicende personali; un atto dovuto nella ricorrenza di due date emblematiche: i trent’anni dalla morte e i cento trascorsi dal matrimonio con Bella Rosenfeld, moglie adorata e musa ispiratrice, prematuramente scomparsa nel 1944.

Ed è proprio sul rapporto simbiotico tra i due coniugi, che poggia le basi l’esposizione capitolina, a cura di Ronit Sorek, forte di 150 lavori – olii, disegni, gouache, litografie, acqueforti e acquerelli – provenienti dalla collezione dell’Israel Museum di Gerusalemme e per la prima volta visibili in Italia. Nelle otto sezioni che scandiscono il percorso, si svela pienamente la mappa artistica e spirituale che sta a fondamento del profilo apolide di questo grande maestro del XX secolo e del suo originalissimo linguaggio nato dal metissage delle tre culture cui appartiene: l’ebraica, il misticismo; la russa, il popolare e il fiabesco; l’occidentale, la tradizione dei grandi pittori e il vento innovativo delle avanguardie. Su tutto, lo stupore di fronte al miracolo della natura e delle creature viventi, che Chagall ci restituisce, nella costellazione di fiori ed animali, con un’arcaicità quasi medievale e un sentire contemporaneo che oscilla tra conscio e inconscio, realtà e favola, memoria e utopia. Pochi i dipinti. È il prevalere del bianco e nero,come suggerisce Tania Coen, vicedirettrice dell’Israel Museum, dei disegni dal tratto deciso, intenso, espressionista, che ci fa scoprire «l’artista vero, a prescindere dalla colorazione».

chagall La fisarmonicaLa mostra, organizzata da Arthemisia Group, è un’operazione di scavo nella poetica e nelle «luci che risplendono ancora di un artista che non è mai stato tormentato, ma che anzi ha mantenuto, fino alla fine della sua esistenza, ottimismo e gioia di vivere e che ha ritratto le debolezze umane senza mai
emettere giudizi». Perché, scrive lo stesso Marc nel suo diario, «per quanto possa sembrare banale, in arte come nella vita è necessaria la semplice umanità; senza questa non ci può essere né una grande arte, né un grande artista». E, polemizzando con Picasso: «Per me ogni quadro deve essere destinato agli angeli… Nell’arte per me contano anche i sospiri». Sono sospiri, infatti, le gouache Sopra Vitebsk, la cattedrale e le case imbiancate, gli amanti abbracciati, nel cielo un pellegrino che torna dal futuro; e La fisarmonica, il suonatore solitario, sullo sfondo il sogno di due innamorati avvolti nella danza. La nostalgia, primo tema portante: la natia Vitebsk in Bielorussia, contadina e ingenua con i suoi scorci dal profumo di madeleine. Nostalgia che più tardi, con gli orrori del nazismo, si velerà di amarezza. È un grido silenzioso, dolente simbolo dell’Olocausto, la Crocefissione (gouache del 1944) col Cristo in cui Chagall identifica il “giusto” che muore perseguitato. È l’urlo di un popolo, sradicato dalla terra e dagli affetti, contro l’«atroce immoralità» di un esodo millenario; il mito dell’esilio, il suo esilio, si reitera nelle figurine di ebrei erranti che nel sacco mettono in salvo la propria identità, la Torah, «l’uomo che tiene stretta la legge», scriverà a Bella, la sola speranza di sopravvivere e di superare le prove terribili. Filo conduttore della mostra – le opere del museo di Gerusalemme appartengono tutte al lascito della figlia di Chagall, Ida, e da sostenitori dello spazio che quest’anno compie il mezzo secolo – è essenzialmente nella serie Ma vie, ispirata all’autobiografia dei primi trent’anni, tradotta dalla moglie e pubblicata a Parigi nel 1931.

C’è lui, il giovane Marc, primo figlio di una numerosa famiglia ebraica di modeste condizioni, le sue ambizioni incomprese, il sentirsi diverso in un ambiente dove la cultura è estranea, l’incontenibile desiderio d’amore che si sazierà nell’incontro con Bella. «L’amore – appunterà Chagall – non è amore se
non ci si sente ardere e volare. Solo l’amore mi interessa». L’amore è la natura, l’arte, la musica, il teatro. L’amore è Bella, di cui illustrerà i libri Burning Lights e First encounter; con lei si libra in volo nella notte di Parigi, il suo volto è quello che ricercherà in tutte le altre donne. L’amore come dono divino: ecco la sequenza de Gli amanti, olio del 1937 e acquerello del 1954-55, de La coppia di amanti con gallo, litografia del 1951, de La passeggiata, inedita tavola a puntasecca del 1923.

L’allestimento è accattivante, forse troppo. Se attira la gigantografia che riproduce la celebre stamperia Mourlot di Parigi, se diverte la video installazione interattiva di Fabien Iliou con quattro opere di Chagall che prendono poco alla volta forma materializzandosi, non piace assolutamente la proiezione a parete de La passeggiata che invita il visitatore ad immortalarsi con un selfie, sovrapponendo il proprio viso a quello degli amanti. Altri spicchi dello Chagall umanista e favolista, a volte mistico, a volte grottesco e irriverente, a volte visionario e surreale, si scorgono nelle tavole della Bibbia, de Le anime morte da Gogol (una chicca il delicato frontespizio) e de Le Favole di La Fontaine.

chagall La torre Eiffel in verdeCicli che ritroviamo anche nell’elegante idea espositiva pensata da Ada Patrizia Fiorillo, curatrice dell’omaggio all’ex Pretura di Cava de’ Tirreni, promosso dalla Mediateca Marte grazie alla collaborazione con il livornese Centro Arte Guastalla. Settantacinque lavori, Segni sul talismano della vita li definisce la critica: incisioni e litografie a cavallo tra gli anni Venti e Cinquanta; alcune litografie a colori del ciclo “Chagall 1957” come La Maternità e il centauro, Il suonatore di flauto, Il gallo rosso e La torre Eiffel in verde; a concludere l’Hommage à Marc Chagall del 1969, Chagall monumentale del 1973, Sole e cavallo rosso del 1979. Altri sguardi. Si entra in profondità, nel raffinato mondo della stampa d’arte. Si respira Parigi al sorgere del XX secolo, «polmone di esperienze e di novità espressive», dove il linguaggio della grafica e le tecniche della stampa d’arte hanno un impulso notevole, merito di bravissimi stampatori ed intelligenti editori. Nel 1923 Chagall incontra Ambroise Vollard, editore in rue Martignac. «Mi dica cosa vorrebbe fare per me?», stimola l’artista al suo rientro dalla Russia. «Mi venne in mente di dire quel che ancora mi sentivo appena scaldarmi dentro. Scelsi Le anime morte di Gogol».

Vi lavorerà tra il ’24 e il ’25; inizialmente 118 incisioni, ne realizzerà 107, pubblicate come unico corpus da Tériade nel 1948. Sceglierà l’acquaforte che gli consente il tratto più sciolto, la modulazione del segno tra chiari e scuri con risultati graffianti e aerei per le scene. Vollard gli chiede un’altra collaborazione, tema libero, l’invito ad usare il colore. Torna alla mente di Chagall l’infanzia e la lettura delle favole di Krylov; opterà per il francese La Fontaine. Realizza, tra il 1926 ed il ’28, le gouache preparatorie. Altra cosa è tradurle – «per i troppi colori», ricorda – in incisioni; le riporta in bianco e nero, nascono acqueforti graffianti e vellutate, dense di mistero ed humor. Anni Trenta, Vollard lo invoglia al progetto editoriale della Bibbia. Con Bella e Ida Marc si reca in Palestina passando per l’Egitto, è il 1931: «Vedevo i miei antenati per la prima volta, e mi sembrò che il loro colore fosse il mio colore, le mie facce fossero le loro facce…».

È sicuramente per lui il momento creativo più coinvolgente e significativo. Il metodo è collaudato: schizzi su fogli, gouache preparatorie, la concezione del mondo e la felicità di abitarlo impressi con l’acquaforte, calibrata dall’azione diretta della puntasecca in linee e punti in cui gravitano corpi e cose, simboli e messaggi. Del Vecchio Testamento (bellissimi la seducente Danza di Miriam e l’arcadia di Mosè nel roveto ardente) appronterà per la stampa – dai 105 esemplari previsti – sessantasei illustrazioni. È il 1939, lo fermerà non solo la morte dell’editore ma anche l’oscurità che avanza sull’Europa. Di nuovo viandante, l’approdo sono gli States, al lutto per la sua gente si aggiunge quello per Bella. Al male, però, opporrà l’appello alla pace. Il richiamo della Francia è insistente, vi ritorna negli anni Cinquanta, una nuova compagna, Vava, e la scelta di risiedere nella solare Vence gli restituiscono la serenità. Il colore è un’urgenza. Completerà la Bibbia per Tériade, rivedrà il registro della grafica con le possibilità pittoriche della litografia, una sinfonia di cromie esaltata dal processo alchemico dei passaggi, addirittura fino a otto, sulla pietra. Azzurro, giallo, rosso: una tavolozza per esprimere, con leggerezza, il segreto della sua anima, per far emergere i temi cari dell’amore, della famiglia, della religione, del mistero stesso dell’esistenza. La sintesi è lo «Chagall monumentale»: il gallo, il cavallo, gli innamorati, la musica, il sole che fluttuano sulla pagina bianca, un volto sorridente, il suo, così simile a Bella, a ricordarci che la vita è bella pur se cammina sul filo della catastrofe.

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