Every beat of my heart, la poesia
L’umiltà del Bene
Nel descrivere il dolore di Lesbia per la morte del suo passero, Catullo ci svela l'inascoltato, il nascosto. Dà voce a ciò che abbiamo vicino ma non notiamo, indifferenti alla grandiosità del suo potere...
Nel poema La lingua degli uccelli, del grande poeta sufi Attar, capolavoro della mistica e della poesia islamica, Simorgh è il re degli uccelli e una delle raffigurazioni del divino. Anche nella letteratura occidentale l’uccello ha un ruolo centrale, di messaggero celeste, tramite alato tra il mondo divino e quello terreno: l’albatro della ballata di Coleridge, angelico messaggero, portatore di buoni venti, il cigno di Baudelaire, spodestato re dei cieli e degli specchi d’acqua, umiliato in un serraglio parigino, i cigni che s’innalzano potenti nelle poesie di Yeats e nella fiaba di Andersen, l’allodola di Shelley, dalla voce irraggiungibile, l’abitatore delle altezze celesti che per il poeta costituisce il modello inarrivabile di ogni lirica umana. Come l’usignolo dell’altro grande romantico inglese John Keats. Tutti questi uccelli sono messaggeri, esseri angelici che mettono in comunicazione i due mondi.
Sia nella Lingua degli uccelli di Attar (vissuto nel XIII secolo), sia nella grande poesia occidentale non compare il più diffuso di tutti gli uccelli, il più umile e domestico, il passero. O meglio appare, in Leopardi, ma con una funzione e un ruolo diversi, e inferiori, a quelli appena citati e alla tradizione orientale e occidentale in materia. Leopardi, convinto della realtà maligna e illusoria, crudele della natura, pacificante solo negli istanti di vuoto siderale, non percepì alcun messaggio, celeste o comunque straniero, nel canto del passero, al punto che lo usò come allegoria dell’uomo, in modo non dissimile da Esopo, Fedro, La Fontaine, seppur con esiti poetici molto superiori. Esiti straordinari, ma solo perché la poesia, quando è un dono, salva tutto. Dal punto di vista del pensiero, Leopardi vede l’uccello in una prospettiva solo umana, anzi, antropomorfa: quel passero, come il corvo o la cicogna in Esopo, è solo una maschera. In un teatro siamese vedremmo l’ombra di un passero cantare il dolore di un uomo.
Non credo che, realmente, intendo nella realtà, gli uccelli siano questo, il passero sia questo. L’uccello è un messaggero, ma è anche una parte di noi, o quanto meno condivide qualcosa di congenito con noi. Lo intuì Catullo, poeta dall’immediatezza fulminante, piangendo per il passero di Lesbia. Intuì che con quella piccola creatura alata non moriva solo il passero ma una parte della donna amata, e una parte di sé, del poeta, era ferita, aveva palpitato con quel minuscolo cuore. Letto Catullo, guardo sempre i passeri, spesso sogno uno di loro, piccolo, che mi chiama. La sua voce non è bella come quella dell’usignolo, e il suo volo non si proietta in alto come quello del falco, è qui, è sempre accanto, e lo era anche quando non lo sentivo, e l’upupa disse che Simorgh è da sempre accanto a noi, anche se lo abbiamo dimenticato. Catullo mi dilatò la conoscenza del passero, del bene che abbiamo accanto, umile, grandioso. A questo servono i grandi poeti. A dare voce, a svelare non ciò che è lontano ma ciò che ci è accanto, non visto o inascoltato. Lessi il passero di Catullo e tutto mutò, in me. E la cronaca non fu più solamente tale, accesa dalla poesia.
Piangete, Veneri e Amori,
e voi tutte anime gentili.
Il passero, delizia della mia donna,
è morto il passero della mia donna,
che ella amava più dei suoi occhi.
Era dolce come il miele e la capiva
naturalmente come una bimba la madre,
e non si muoveva mai dal suo grembo,
ma saltellando qua e là, con le zampette,
solo alla sua padrona cinguettava.
E ora scende il cammino tenebroso
da cui nessuno, dicono, ritorna.
Maledette, maledette tenebre dell’Orco,
che divorate ogni dolcezza,
rapire un passero così bello!
Che disgrazia, piccolo passerino…
A causa tua gli occhi della mia donna
son gonfi e rossi per le lacrime.
Catullo
(Traduzione di Roberto Mussapi)